E' una notte afosa a Milano quella del 27 luglio 1993. Improvvisamente alle 23.14, mentre sui Navigli c'è ancora chi passeggia, si sente un forte boato provenire da via Palestro.
Ad esplodere, davanti al Pac (il Padiglione d'Arte Contemporanea), è un'autobomba. Lo stabile viene completamente distrutto e a causa dello scoppio muoiono Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, vigili del fuoco e il vigile urbano Alessandro Ferrari, intervenuti sul posto perché dal cofano di quell'auto, una Fiat Uno, usciva del fumo. Muore anche Driss Moussafir, migrante raggiunto da un pezzo di lamiera mentre dormiva poco più in là, su una panchina dei giardini pubblici. Altre dodici persone rimangono ferite.
Pochi minuti dopo la stessa scena si verifica a Roma dove esplodono due ordigni: uno sul retro della Basilica di San Giovanni in Laterano dove ha sede la Curia, l’altro davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro. Nelle stesse ore viene registrato un black out a palazzo Chigi, la sede del Governo e le linee telefoniche rimangono isolate per alcune ore.
Sono gli attentati di quella lunga notte della nostra Repubblica di cui ieri ricorreva il triste anniversario.
Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente del Consiglio, interrogato dai magistrati di Palermo che indagavano su quella stagione di bombe e misteri ed in particolare sulla trattativa Stato-mafia, riferì di essersi particolarmente preoccupato per lo strano black-out di Palazzo Chigi. Addirittura temette l'esecuzione di un Colpo di Stato.
Certo è che il clima politico di quella estate era particolarmente teso. Un anno prima in Sicilia erano stati uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e a pochi mesi di distanza c'erano stati gli attentati in via Fauro a Roma (14 maggio 1993) e in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993, 5 morti).
Ciampi, dopo la notte delle bombe, annunciò di voler riformare i servizi segreti e il 2 agosto 1993, partecipando a sorpresa alla commemorazione della strage di Bologna del 1980, intervenne dal palco: “È contro questa concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”. A cosa si riferiva Ciampi quando parlava di “torbida alleanza di forze”?
Il sospetto che dietro a quelle stragi vi fosse la mano di Cosa nostra emerse sin da subito e le indagini passarono in fretta dalla procura di Milano a quella di Firenze in quanto l'esplosivo utilizzato nell'attentato era lo stesso di quello utilizzato in via dei Georgofili.
Tuttavia è possibile credere che dietro a quelle iniziative vi fosse solo la mano mafiosa e l'interesse della sola Cosa nostra?
L'ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi © Imagoeconomica
Quelle bombe per il 41 bis
Abbiamo già ricordato quale fosse il clima che si respirava all'epoca. Oltre a Ciampi anche l'ex Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sentito davanti alla Corte d'Assise di Palermo nel processo Stato-mafia, che a seguito di quelle bombe ai livelli più alti delle istituzioni di allora si ebbe immediatamente la consapevolezza di un attacco diretto da parte della mafia. Addirittura l'ex presidente parlò esplicitamente “di un aut-aut nei confronti dello Stato da parte della mafia corleonese per alleggerire la pressione detentiva o, in caso contrario, proseguire nella strategia destabilizzante dello Stato”.
In una nota della Dia, datata 10 agosto 1993, si parlava di una strategia “per insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche modo più accettabili per Cosa Nostra”. Un documento eccezionale dove per la prima volta compare il termine “trattativa”, utilizzato per descrivere quello che stava accadendo nell'immediato post stragi.
“La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati - scrivevano gli analisti - Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”.
“Verosimilmente - continua la nota - la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo”.
Gli investigatori della Direzione antimafia avvertivano anche dei rischi che si sarebbero corsi qualora vi fosse una revoca “anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis”. Questa infatti “potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”.
Le indagini ed i processi
Parte della verità sulla strage di via Palestro venne ricostruita grazie alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco. Così, nel 1998, Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del 1993. Tuttavia nella sentenza veniva anche messo nero su bianco che: “Purtroppo, la mancata individuazione della base delle operazioni a Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di penetrare in quelle realtà che, come dimostrato dall’investigazione condotta nelle altre vicende all’esame di questa Corte, si sono rivelate più promettenti sotto il profilo della verifica 'esterna'”.
Un nuovo capitolo si è poi aperto nel 2002 quando, sempre in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l'arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso ("uomini d'onore" di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell'esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente l'attentato. I fratelli Formoso vennero condannati nel 2003 all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Milano ed il giudizio venne confermato anche nei successivi gradi di giudizio.
Una nuova spinta è giunta nel 2008 quando ha iniziato la propria collaborazione con la giustizia Gaspare Spatuzza, ex boss di Brancaccio che ha contribuito a riscrivere la verità sulla strage di via d'Amelio. Spatuzza riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Filippo Marcello e Vittorio Tutino (quest'ultimo, pur essendo condannato per le stragi di Firenze e Roma, assolto in via definitiva per quella di Milano, così che non potrà più essere chiamato alla sbarra, ndr) parteciparono ad una riunione in cui vennero decisi i gruppi che dovevano operare su Roma o Milano per compiere gli attentati; secondo Spatuzza, Formoso e i fratelli Tutino operarono su Milano e in un primo momento lui, Lo Nigro e Giuliano li raggiunsero per aiutarli nello scarico dell'esplosivo e nel furto della Fiat Uno utilizzata nell'attentato, per poi tornare a Roma al fine di compiere gli attentati alle chiese. Con le sue dichiarazioni di fatto Spatuzza scagionò anche Tommaso Formoso, dichiarando che all'attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l'esplosivo. Ciò non bastò a portare alla revisione del processo tanto che nell'aprile 2012 la Corte d'Assise di Brescia rigettò la richiesta adducendo che le sole dichiarazioni di Spatuzza non bastavano.
Con le stesse motivazioni, di fatto, è stato assolto in via definitiva anche Filippo Marcello Tutino, accusato di essere stato il basista della strage.
L'ex Premier, Silvio Berlusconi e l'ex senatore, Marcello Dell'Utri © Imagoeconomica
Le domande dietro le stragi del 1993
Nonostante le inchieste ed i processi, a quasi trent'anni di distanza sono ancora troppi i tasselli da dover mettere al loro giusto posto.
La Procura di Firenze, è noto, da tempo ha riaperto il fascicolo sui mandanti esterni delle stragi in Continente e ad essere indagati sono l'ex Premier Silvio Berlusconi e l'ex senatore Marcello Dell'Utri.
Quest'ultimo, addirittura, è stato indicato da un collaboratore di giustizia, Pietro Riggio, come colui che "indicò i luoghi da colpire". Ovviamente un fatto tutto da dimostrare, ma è chiaro che su quella stagione i punti oscuri da chiarire sono molteplici e proprio la scelta dei luoghi rappresenta un'anomalia nella logica di Cosa nostra.
"Capaci ci appartiene, via D'Amelio anche. Ma Firenze, Milano e Roma sono una storia diversa, sono morti che non ci appartengono" disse Spatuzza nei processi. Tutte le bombe del 1993 sono rivolte a musei, monumenti, luoghi d’arte ed è chiaro che attentare al patrimonio artistico e culturale di un Paese, non manifesta solo la volontà di metterlo all'angolo, ma quasi annientarlo.
“Ti immagini se l'Italia si sveglia e non trova più la Torre di Pisa?”, avevano suggerito a Nino Gioè, nel tentare di convincere la mafia a procedere con gli attentati per tutta la Nazione. A dargli l'idea, forse, la Primula Nera, l'ex terrorista nero e legato ai servizi segreti, Paolo Bellini, oggi sotto processo per la strage di Bologna.
Anche da questi elementi si rafforza il sospetto che dietro a quegli attentati non vi fosse solo Cosa nostra.
Chi ha indicato alla mafia i luoghi da colpire?
Cosa si nasconde dietro la sigla "Falange Armata" con cui furono rivendicati anche quegli attentati?
Quale messaggio si voleva dare colpendo quei monumenti? Si può essere certi che erano quelli gli obiettivi?
Ancora una volta sono le parole di Spatuzza a far sorgere il dubbio dichiarando che “a Milano sorsero problemi e l’obiettivo venne mancato di 150 metri”.
Vale la pena ricordare che in quelle zone vi era una sede del Centro europeo di comunicazione, una sede massonica che faceva riferimento al Gran Maestro Giuliano Di Bernardo; alcuni uffici coperti riferibili ai servizi di sicurezza ed anche gli uffici di Marcello Dell'Utri. Quella bomba che secondo i pentiti non avrebbe dovuto fare vittime, doveva essere un messaggio per queste organizzazioni o per lo stesso ex senatore?
Gli organi inquirenti si stanno muovendo a 360° anche se gli anni trascorsi rendono sempre più difficile giungere a risposte certe.
Sulla bomba di via Palestro ci sono troppi elementi che non tornano perché con l'assoluzione dei fratelli Tutino resta avvolto nel mistero chi ha acceso la miccia o chi ha guidato l'auto fino al PAC.
Vi sono dei testimoni che parlano di una donna, bella, bionda e magra, probabilmente sotto i trent'anni.
La procura di Firenze, diretta da Giuseppe Creazzo, che ha creato un pool che vede l'impegno dei procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco. E sono loro ad aver ripreso in mano gli identikit da cui emerge che le figure femminili dietro le stragi sarebbero non una, ma addirittura quattro. Donne che non farebbero in alcun modo parte di Cosa nostra. Adesso i verbali con le testimonianze raccolte dopo le stragi sono stati ripresi dalla Procura fiorentina. Si riparte da questi elementi. Nella speranza che prima o poi si possa veramente far luce anche su quella stagione di bombe e delitti che hanno segnato in maniera irrimediabile la nostra Repubblica.
In foto di copertina: strage di Via Palestro a Milano
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- Aaron Pettinari