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“Mafia del click…che sposta denaro, lo investe, lo scambia e lo occulta con un colpo di mouse ed entra nel tessuto sano dell’economia e lì si nasconde. Criminalità…sempre più pervasivamente infiltrata nella pubblica amministrazione”. Con queste parole il Procuratore Generale di Bari ha definito la criminalità organizzata pugliese evidenziando la sua spiccata vocazione affaristico imprenditoriale.
Lo scenario che emerge costantemente dalle indagini è quello di una mafia che, oltre a mirare al controllo del territorio e del mercato degli stupefacenti, punta a infiltrarsi nell’economia legale e a condizionare i flussi finanziari e il libero mercato allungando i tentacoli sui finanziamenti europei.
Il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Cafiero de Raho, in un discorso tenuto presso l’Università di Foggia il 27 gennaio 2020, si è soffermato sull’appoggio che le organizzazioni criminali pugliesi, trasformatesi in mafia degli affari, ricevono “da parte di quella che indichiamo come la borghesia mafiosa” punto d’incontro tra gli interessi dei clan e di una parte del mondo imprenditoriale e politico.
Una zona grigia di cui si parla anche nell’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia che precisa come l’organizzazione mafiosa a Foggia assuma sempre più la forma di un “network” alla costante ricerca di consensi nel tessuto economico e sociale. Infiltrando prestanome nel tessuto societario delle aziende e riciclando nelle stesse i profitti derivanti dalle attività illecite, soprattutto quelli provenienti dal traffico delle sostanze stupefacenti, “…le organizzazioni mafiose foggiane stanno crescendo, si stanno evolvendo, stanno passando da un modello sempre più tradizionale di mafia militare ad un modello di mafia degli affari, e questo sta modificando gli assetti, i rapporti di alleanze perché quanto più gli obiettivi sono ambiziosi, tanto più le relazioni, le cointeressenze si fanno strutturate…”. Questo discorso si può estendere anche alle altre mafie attive sul territorio pugliese, vale a dire i clan della Camorra Barese e i clan della Sacra Corona Unita, come è emerso da due importanti operazioni di polizia giudiziaria denominate rispettivamente “Final Blow” e “Dirty slot”. Con la prima è stato colpito duramente il clan Pepe che si era infiltrato nel tessuto economico e imprenditoriale grazie alla complicità di alcuni imprenditori che avevano assunto fittiziamente nella loro azienda affiliati in cambio di protezione. Con la seconda si sono accesi i riflettori su due fratelli imprenditori ritenuti responsabili di concorso esterno alla Sacra Corona Unita, operante nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto. Gli indagati avrebbero usufruito della protezione e della forza intimidatoria di esponenti dei clan offrendo in cambio “alle singole organizzazioni criminali un introito fisso o calcolato a percentuale sui guadagni, in tal modo fornendo un apprezzabile contributo, in termini di mantenimento e rafforzamento, alle strutture criminali interessate all’accordo, che acquistavano, così, consistenti liquidità economiche e il controllo del settore economico costituito dal mercato del gioco d’azzardo sia legale che illegale”.
Il settore del gaming è molto ambito dalle mafie pugliesi perché offre ampie possibilità di riciclaggio.
L’emergenza sanitaria, il lockdown e la conseguente crisi socio-economica stanno determinando l’avvio di quel processo definito dal Commissario straordinario del Governo per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura, “welfare mafioso di prossimità” a favore delle imprese in crisi, finalizzato a future connivenze o ad ottenere il totale controllo e possesso delle aziende, estromettendone i titolari.
A tal proposito sono illuminanti le dichiarazioni del Questore di Bari Giuseppe Bisogno: ʺ…da un lato le organizzazioni mafiose si fanno carico di fornire un welfare alternativo a quello dello Stato – valido e utile mezzo di sostentamento – dall’altro si adoperano per esacerbare gli animi in quelle fasce di popolazione che cominciano a soffrire oltremodo lo stato di povertà derivante dalla congiuntura negativa indotta dall’epidemia, ribellandosi e generando anche problemi di ordine pubblico…è il quadro perfetto nel quale le mafie si affrettano nel poter immettere nei circuiti legali di piccole fabbriche, negozi, ristoranti e bar, il denaro contante procacciato con lo spaccio, le estorsioni e l’usura. I piccoli imprenditori chiudono per decreto e iniziano ad accumulare debiti, non pagando i fornitori, il personale dipendente o l’affitto commerciale. Per questi i “prestiti” delle mafie, accompagnati magari dalla richiesta più o meno esplicita di subentrare nella gestione dell’azienda, possono essere l’unica ancora di salvezza per non cessare l’attività…”.
I prestiti, come evidenziato dal Prefetto di Bari Antonia Bellomo, vengono praticati anche “per piccole somme di denaro”.
Tra i settori maggiormente esposti a rischi di infiltrazione criminale in Puglia c’è il settore sanitario, ma bisogna fare molta attenzione anche al turismo e alla ristorazione, in crisi di liquidità per le chiusure causate dalla pandemia.
Sempre forte l’interesse della criminalità organizzata nei confronti del settore della res publica, al fine di interferire nella vita delle locali amministrazioni e accaparrarsi gli appalti.

Le mafie in puglia: origini, struttura e attività
Le mafie, in Puglia, sono storicamente caratterizzate da una spiccata eterogeneità geografica e strutturale. Per lungo tempo e forse ancora oggi, la mafia pugliese è stata identificata con la Sacra Corona Unita. Niente di più approssimativo e sbagliato. La SCU, infatti, è la mafia salentina, radicata nelle province di Lecce e Brindisi, e lambisce solo in minima parte la provincia di Taranto. Altre realtà criminali interessano la provincia di Foggia e quella di Bari. La criminalità foggiana si connota per la presenza di diverse organizzazioni criminali: la Società Foggiana, la Mafia Garganica e le mafie del Tavoliere. La prima è egemone nella città di Foggia, la seconda allunga i suoi tentacoli sul Gargano, mentre la Mafia di San Severo domina sull’Alto Tavoliere e quella di Cerignola sul Basso Tavoliere. Anche quando si parla di mafia foggiana, spesso, si semplifica e si fa confusione considerando un unico fenomeno mafioso qualcosa di più complesso, articolato e radicato nel tempo. Sullo sperone d’Italia si sono accesi i riflettori il 9 agosto 2017, dopo la strage di San Marco in Lamis, nel corso della quale hanno perso la vita anche due innocenti contadini diventati testimoni scomodi: i fratelli Luigi e Aurelio Luciani. Ma la Mafia Garganica non è nata ieri, anzi, è da un bel po’ che semina morte e terrore con quel suo particolare modo di firmare gli omicidi: sparare in faccia ai nemici per sfigurarli, per distruggerne l’identità, come se non fossero mai esistiti.
Adesso, partendo da alcuni cenni storici, facciamo una carrellata sulle mafie pugliesi.


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San Marco in Lamis, 9 agosto 2017. I fratelli Luigi e Aurelio Luciani morirono da innocenti in un agguato al boss Romito


La Sacra Corona Unita
La Sacra Corona Unita è stata fondata da Giuseppe Rogoli, con l’aiuto di “compari diritti”, il 1° maggio 1983 nel carcere di Bari dov’era detenuto, come risulta da un’agenda trovata in suo possesso. Originariamente quest’organizzazione criminale aveva i suoi interessi in tutta la regione ed era stata creata per arginare l’avanzata delle altre mafie sul territorio, soprattutto della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.
Il Rogoli, vicino ai boss della ‘Ndrangheta Umberto Bellocco e Carmine Alvaro, aveva subito assunto il ruolo di leader del sodalizio criminale dotato di leggi interne molto rigide che prevedevano dure punizioni per gli affiliati che le avessero trasgredite.
Contemporaneamente, Salvatore Rizzo, altro personaggio di spicco nel panorama criminale salentino, fondava la Famiglia Salentina Libera sempre allo scopo di proteggere il territorio dall’ingerenza di organizzazioni criminali provenienti da altre regioni.
La mafiosità di queste due consorterie criminali non venne riconosciuta subito dai giudici che le processarono. Fu così che pericolosi criminali ebbero modo di riorganizzarsi sul territorio mentre la Famiglia Salentina Libera fu inglobata nella più forte SCU.
La svolta giudiziaria avvenne il 23 maggio 1991, nel processo “De Tommasi + 133”, quando la Corte d’Assise di Lecce riconobbe la Sacra Corona Unita come associazione di stampo mafioso. Nei primi anni di vita la SCU mostrò tutta la sua efferatezza, macchiando il Salento con il sangue di numerose vittime e rendendosi protagonista di attentati dinamitardi di inaudita gravità. Solo per puro caso non accadde il peggio e si evitarono vere e proprie stragi.
Da quel lontano 1° maggio 1983, giorno in cui Pino Rogoli fondò la SCU, tanto tempo è passato. L’incisiva azione della Magistratura e delle Forze di Polizia ha assestato duri colpi a questa organizzazione mafiosa che ha cambiato pelle e struttura trasformandosi da organizzazione tendenzialmente verticistica – come era almeno nelle aspirazioni originarie dei suoi fondatori e come per qualche tempo si è mantenuta - ad un’organizzazione reticolare di clan che si dividono il territorio.
La Sacra Corona Unita si è evoluta da “mafia sanguinaria a mafia silenziosa e invisibile, inabissata tra i vari meccanismi quotidiani delle attività della società civile, determinando un atteggiamento conciliante da parte dei cittadini, testimoniato da diffuse manifestazioni di solidarietà della gente comune nei confronti di esponenti della criminalità di tipo mafioso”.
L’inchiesta giudiziaria “Final Blow” ha scompaginato i clan Pepe e Briganti, consorterie dominanti nel capoluogo, la cui intesa criminale è appoggiata dai Tornese di Monteroni di Lecce. L’indagine ha fatto luce sui recenti sviluppi della criminalità organizzata nel territorio leccese, appurando il ridimensionamento del clan Briganti e l’egemonia del sodalizio mafioso Pepe nel capoluogo salentino, “mediante l’esercizio di una supremazia riconosciuta anche da gruppi operanti nelle province limitrofe”. Dalla ricostruzione fatta dagli inquirenti emergono gli accordi stretti tra i reggenti dei sodalizi Pepe e Briganti con altri clan operanti nella provincia come i De Paola di Acquarica del Capo e la compagine brindisina dei Martena che “siglavano il nuovo statuto della Scu”.
La forza di intimidazione del clan Pepe si manifestava anche mediante summit organizzati al fine di decidere le strategie operative e di salvaguardare la pax mafiosa tra i diversi gruppi, al fine di garantire l’esercizio pacifico delle attività illecite nei rispettivi territori di competenza tramite l’integrazione tra i nuovi capi e gli esponenti della “vecchia guardia della Sacra Corona Unita”.
Significative, al riguardo, le dichiarazioni del Procuratore Distrettuale della Repubblica di Lecce, Leonardo Leone De Castris: “…la quotidiana opera di personaggi… “di spicco”… volta a rimuovere i contrasti sul territorio tra le varie fazioni al fine di assicurare il migliore andamento degli affari illeciti. La presenza e la piena operatività sul territorio di tali soggetti rappresenta la continuità nel tempo dell’organizzazione mafiosa e tenta in qualche modo di limitare – sinora con apprezzabile successo – quelle che sono le spinte dei componenti più giovani dell’organizzazione, troppo spesso portati a emulare modelli resi famosi anche grazie ai successi di serie televisive aventi ad oggetto fenomeni criminali imperanti su altri territori…”.
Dalle indagini emerge “lo svolgimento continuativo e perdurante delle più tradizionali attività illecite: dalla più antica costituita dalle estorsioni, alla più remunerativa, il traffico di droga, per finire alla più recente, le scommesse clandestine”. La Sacra Corona Unita ha allungato i suoi tentacoli sui vari settori commerciali e imprenditoriali leciti per riciclare il denaro sporco. Una Sacra Corona Unita imprenditrice che mira a infiltrarsi nel tessuto economico sano anche attraverso il controllo dei servizi connessi con la movida e il turismo, come quello di security e guardiania.


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Il procuratore capo di Foggia, Leonardo Leone De Castris © Imagoeconomica


“È importante, in prospettiva, porre attenzione in modo costante all’ambito aziendale e commerciale della provincia, ovviamente interessato dalle ripercussioni determinate dall’adozione dei provvedimenti governativi per fronteggiare l’emergenza Covid-19. È fondamentale monitorare continuamente la situazione, non solo sviluppando al massimo l’attività informativa, soprattutto tenendo contatti con le associazioni di categoria, ma anche elaborando ogni possibile notizia che dovesse emergere dalle abituali attività investigative, in modo da poter cogliere immediatamente quei cambiamenti o altri alert che possono celare interventi della criminalità organizzata pronta a cogliere le difficoltà del momento di imprenditori e commercianti…”.
Per accattivarsi il consenso della popolazione, la SCU allunga i suoi tentacoli non solo sul tessuto socio economico ma anche su quello della pubblica amministrazione.
A tal proposito, il Procuratore Capo Leonardo Leone De Castris evidenzia che i sodalizi ricorrono “…ad affiliazioni e rituali verso gli strati più umili e giovani della popolazione, dall’altro stringono accordi con il mondo dell’imprendotoria, della politica e delle professioni venendo ricambiati dalla parte meno sana di tali ambienti, facilmente affascinati, al di là di un diffuso atteggiamento culturale di indulgenza, dalla possibilità di avvalersi dei servizi dell’organizzazione mafiosa per resistere alla forte crisi economica indotta da ragioni di mercato, da catastrofi naturali (vedi epidemia di xylella) e oggi dalla pandemia da Covid 19; il complesso di queste circostanze è oggi in grado di portare ad un pericoloso ampliamento della c.d. “zona grigia”. È fonte di preoccupazione e di costante attenzione investigativa la constatata diffusione sul territorio di iniziative di vari candidati ad elezioni amministrative volte a contattare i locali esponenti della criminalità organizzata per ottenere dagli stessi sostegno elettorale; invero tale pratica che costituisce un vulnus ai principi costituzionali di diritto e partecipazione del cittadino alla vita democratica, è purtroppo risultata talmente diffusa, in capo ad alcuni candidati nelle passate tornate elettorali, da non risultare neppure pienamente compresa nel suo pieno disvalore morale oltre che penale…”.

La Camorra Barese
Sino agli anni Ottanta, Bari e la sua provincia non erano toccate dal fenomeno della criminalità mafiosa. Si registravano reati di criminalità organizzata limitati al contrabbando, al gioco d’azzardo e alla prostituzione.
La prima volta che il Tribunale di Bari emise una sentenza di condanna per mafia fu nel processo all’organizzazione criminale denominata La Rosa, operativa sin dal 1989 a sud della provincia di Bari (nelle città di Acquaviva delle Fonti, Altamura, Conversano, Gioia del Colle, Locorotondo, Putignano e Gravina di Puglia), il cui capo Oronzo Romano era il pregiudicato di Acquaviva delle Fonti.
Con questa sentenza il Tribunale accertò l’esistenza di diversi clan e ne identificò gli appartenenti: Giovanni D’Alena per la zona di Putignano, Domenico Manfredi e Pietro Coletta per la zona di Gravina in Puglia, Bartolomeo D’Ambrosio per la zona di Altamura e Antonio Di Cosola per la zona di Ceglie e Carbonara.
Nei primi anni Novanta, diversi processi avevano appurato la presenza sul territorio di Bari e dintorni di organizzazioni aventi le caratteristiche della mafiosità, frequentemente collegate tra di loro. Non si aveva ancora, però, una visione unitaria dell’intero fenomeno. Fu grazie al processo Conte Ugolino che per la prima volta si accertò sul territorio barese la presenza di una complessa e unitaria organizzazione criminosa che non aveva una struttura verticistica con a capo una cupola ma era composta da diversi gruppi che si spartivano il territorio agendo autonomamente.
Il processo Conte Ugolino avrebbe appurato che tutti i sodalizi attivi a Bari avevano una comune origine storica che si rifaceva ai tempi in cui Pino Rogoli serrava le fila della criminalità pugliese per fare muro contro le intromissioni di altre mafie in Puglia.
Attualmente le consorterie criminali baresi sono frammentate. “Nel capoluogo pugliese si conferma l’esistenza di una struttura orizzontale di tipo camorristico in cui i sodalizi presenti, seppur privi di una visione strategica unitaria e di un vertice condiviso, risultano capaci di progredire e di insinuarsi nei centri nevralgici del tessuto sociale e produttivo, dando corpo a un notevolissimo volume di affari in ogni settore criminale e non”, scrivono gli investigatori della DIA.
In questo scenario molto complesso, sono particolarmente significative le riflessioni del Prefetto di Bari, Antonia Bellomo: “La criminalità organizzata che opera in questo territorio, seppur frazionata in numerose consorterie conferma la sua dinamicità nonché la capacità di adattarsi alle mutevoli situazioni cercando di massimizzare il profitto da ricavare dalle attività illecite. Anche nel periodo di lockdown è continuata l’attività di spaccio di sostanze stupefacenti, il cui traffico è sempre al centro degli interessi delle organizzazioni criminali che hanno altresì cercato di approfittare del disagio di intere categorie economiche. Recenti evidenze giudiziarie hanno fatto emergere il fenomeno dell’usura praticato anche per piccole somme di denaro…”. Da evidenziare che “alcuni tentativi di guidare la protesta delle classi maggiormente colpite dalla crisi, compiuti da elementi contigui alla criminalità, sono stati circoscritti dalle stesse categorie che hanno preso le distanze…”.
La criminalità barese ha una spiccata capacità di infiltrarsi nel tessuto socio-economico grazie alle ingenti disponibilità finanziarie, agevolata dalla crisi economica che la rende “player affidabile, concreto ed efficace”. Alla luce del quadro emergenziale scaturito dalla crisi pandemica, ci sono vari settori esposti al rischio di infiltrazione criminale, in particolar modo quello sanitario, “polo di interessi considerevoli, quindi, appetibile in ragione delle consistenti risorse di cui è destinatario”.


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Il Prefetto di Bari, Antonia Bellomo © Imagoeconomica


Ad incidere pericolosamente nell’economia locale sono i quattro clan storici baresi: Parisi, Capriati, Strisciuglio e Mercante-Diomede.
Su tutti, il clan Parisi, attivo nel quartiere Japigia e nella zona sud-est della provincia, ha sempre manifestato una spiccata vocazione per gli affari più sofisticati, come il grande riciclaggio, le scommesse online e l’acquisizione tramite prestanome di società e imprese apparentemente sane.
I Capriati sono dediti soprattutto al traffico di sostanze stupefacenti, alle estorsioni e alla gestione del gioco d’azzardo. Operano nel Borgo Antico di Bari e hanno ampie ramificazioni in altre zone della città come il quartiere San Girolamo-Fesca e in un’ampia zona della provincia, soprattutto in quella a nord del capoluogo. Sono infatti appurate le influenze del clan nei comuni di Modugno, Bitonto, Valenzano, Giovinazzo e Putignano.
Il clan Strisciuglio, in contrasto con i Capriati per il controllo del centro storico, è guidato dai suoi vertici anche se detenuti da molto tempo. Si caratterizza per il ricorso ai classici riti di affiliazione mafiosa ed esercita il suo dominio anche all’interno degli istituti penitenziari. Opera soprattutto nel Borgo Antico e nei quartieri Carbonara, Carbonara 2 e Ceglie del Campo, grazie a gruppi autonomi che si dividono i territori di influenza, dotati di propri esponenti epocali, quadri intermedi, manovali del crimine, soldati e gruppi di fuoco. Il clan Strisciuglio è sicuramente da annoverare tra i clan più agguerriti della zona, forte di un’ampia disponibilità di armi, della forza di intimidazione e della capacità di assoggettamento. Predilige la gestione del traffico di droga, delle estorsioni, ma anche dell’usura, del riciclaggio e della distribuzione delle apparecchiature da gioco ed intrattenimento. Continua a manifestare forti mire espansionistiche ed è causa di fibrillazioni negli equilibri tra le cosche mafiose della città di Bari.
Il clan Mercante-Diomede, federato ai Capriati, è considerato uno dei più strutturati e per questo da classificare tra le grandi realtà criminali della città. Molto attivo nelle estorsioni, nel traffico di stupefacenti e nel gioco d’azzardo, ha diverse aree di influenza sia nel capoluogo, sia nell’immediato hinterland (Bitonto, Triggiano, Adelfia, Altamura, Gravina in Puglia). La famiglia Mercante opera principalmente nel rione Libertà, con ramificazioni soprattutto nel quartiere San Paolo, zona contesa alla frangia dei Telegrafo alleata degli Strisciuglio. La famiglia Diomede, invece, è attiva nei quartieri Poggiofranco, Picone, Carrassi e San Pasquale, anche se ci sono stati momenti di tensione con altri clan presenti in quei territori e nel comune di Modugno, soprattutto per il controllo del mercato degli stupefacenti.

La Società Foggiana
È giudizialmente appurato che a Foggia, verso la fine degli anni Ottanta, fosse in atto una guerra tra il clan con a capo Giuseppe Laviano e il clan alla cui guida si alternavano Giosuè Rizzi, Gerardo Agnelli e Rocco Moretti.
Una lunga scia di sangue aveva preceduto la scomparsa di Giuseppe Laviano ucciso l’11 gennaio 1989 da Franco Vitagliani, condannato all’ergastolo per questo omicidio. Il corpo del Laviano, vittima di un agguato, non è mai stato rinvenuto. Fu tradito da uno dei suoi fedelissimi, il killer Franco Vitagliani che passò a prenderlo con la sua macchina, come avrebbe dichiarato la compagna del Laviano. Da quel momento l’uomo scomparve. A provare la sua morte, secondo un collaboratore di giustizia, una fotografia scattata con una Polaroid che ritraeva la testa mozzata del Laviano, esibita durante gli incontri dei capi mafiosi.
Questo delitto aprì la strada all’ascesa del potente boss Rocco Moretti, alias il Porco, che sarebbe diventato uno dei personaggi più importanti della Società Foggiana.
Tre anni prima, esattamente il 1° maggio 1986, Giuseppe Laviano era riuscito a sfuggire ad un altro agguato. Alle tre di mattina di quel lontano giorno di maggio, erano seduti al tavolino di un locale del centro cinque piccoli spacciatori del clan Laviano. Chiacchieravano davanti a una bottiglia di vino quando, inatteso e devastante, arrivò un commando di tre killer armati fino ai denti che irruppe nel locale aprendo il fuoco. Sotto la pioggia di proiettili solo uno dei pregiudicati riuscì a non soccombere in quella che sarebbe stata chiamata la strage del Bacardi, dal nome del locale dove si svolsero i fatti. Quello che sembrava essere uno dei tanti regolamenti di conti in seno alla criminalità locale rappresentava in realtà il salto di qualità, l’introduzione di un nuovo elemento per la piccola criminalità dell’epoca: la lotta senza quartiere per il controllo del mercato degli stupefacenti e il conseguente scontro tra boss.
Giuseppe Laviano si sottrasse all’agguato perché decise in extremis di non partecipare a quell’incontro. Il responsabile di quella strage fu Giosuè Rizzi, il Papa di Foggia, già elemento importante della sacra Corona Unita, volto nuovo, crudele e malvagio dell’emergente mafia.
Questi due episodi appena raccontati, secondo molti osservatori, costituirono il momento della nascita della Società Foggiana e il suo debutto in grande stile nel panorama criminale.
La Società Foggiana fu riconosciuta organizzazione criminale di stampo mafioso, per la prima volta, il 15 luglio 1997 dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari, nel contesto del processo Panunzio, dal nome del costruttore Giovanni Panunzio assassinato il 6 novembre 1992. La Società è organizzata in batterie, vale a dire in gruppi di persone legati tra loro da forti vincoli di parentela. È una struttura che agevola il consolidarsi di una forte coesione tra i suoi membri e limita i rischi di avere al proprio interno collaboratori di giustizia. Le tre batterie attive a Foggia fanno capo alle famiglie Moretti-Pellegrino-Lanza, Sinesi-Francavilla e Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese.
Nonostante molti affiliati siano attualmente detenuti, la continuità nelle batterie è garantita dalla possibilità di fare affidamento sulla facilità di reclutamento delle nuove leve, scelte nel bacino della criminalità comune, per essere impiegate in attività di supporto e manovalanza, come la custodia di droga ed armi, nel compimento di azioni intimidatorie (ad esempio la collocazione di ordigni esplosivi) oppure nell’intestazione fittizia di beni.
Dalle indagini è emerso anche il ricorso alla manovalanza straniera in alcuni episodi estorsivi posti in essere nei confronti di due imprenditori foggiani (uno attivo nel settore dell’edilizia, l’altro titolare di un esercizio commerciale), da tre appartenenti alla criminalità organizzata foggiana e da un romeno.
Il gruppo Moretti-Pellegrino-Lanza, in assenza dei leader storici detenuti, continua a imperversare sul territorio attraverso le cosiddette “seconde leve”.
Le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia confermano il carattere federativo della Società Foggiana e l’esistenza di una cassa comune. Rilevante, al riguardo, il ritrovamento di “due liste, di rilievo ai fini della ricostruzione delle vicende delittuose oggetto del procedimento in epigrafe: una contenente i nomi di soggetti affiliati tra l’altro alla batteria dei MORETTI-PELLEGRINO-LANZA, con accanto l’indicazione della somma mensile da costoro percepita per il contributo dato al mantenimento del vincolo associativo e alla concreta realizzazione del programma criminale; l’altra corrispondente alla lista degli estorti…”.
Tutte e tre le batterie hanno legami con le organizzazioni criminali della provincia. I Sinesi-Francavilla sono tradizionalmente vicini ai Montanari dell’area garganica, soprattutto al clan Li Bergolis, e ai Nardino di San Severo. I Moretti-Pellegrino-Lanza, oltre ad essere storici alleati di alcuni clan del litorale garganico, sono molto legati ai Testa-La Piccirella di San Severo. Infine, la batteria dei Trisciuoglio-Prencipe-Tolonese ha rapporti con il clan Romito di Manfredonia e con appartenenti alla criminalità di Orta Nova.


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La Mafia Garganica
Per raccontare la storia della Mafia Garganica, bisogna partire dall’omicidio di Lorenzo Ricucci avvenuto il 30 dicembre 1978. Nell’agguato rimase ferito anche il figlio Salvatore. Esecutori dell’attentato furono Francesco e Pasquale Li Bergolis. L’omicidio avvenne dopo un violento litigio per motivi di spartizione del pascolo.
Fu così che esplose una vera e propria guerra di mafia tra due blocchi di famiglie rivali: da una parte la famiglia Li Bergolis, fiancheggiata da parenti facenti parte dei nuclei familiari dei Lombardi e dei Miucci, dall’altra i Primosa, appoggiati dagli Alfieri e dai Basta, tra loro uniti da vincoli di parentela.
Una faida che provocò decine di vittime con una violenza direttamente proporzionale alla profondità delle radici storiche di lotte familiari intessute da amicizie e interessi traditi.
Nei primi anni Settanta le famiglie Primosa e Li Bergolis non erano in conflitto tra loro, tutt’altro. Agivano di comune accordo nella spartizione del territorio e i Li Bergolis godevano già di un notevole prestigio criminale. L’omicidio del 30 dicembre 1978 non scaturì, in realtà, da un dissidio per la spartizione di pascoli e territorio, ma dalla brama di potere delle singole famiglie. Con violenza e ferocia, queste faide familiari si trasformarono in mafia: la mafia di Monte Sant’Angelo.
L’11 luglio 2001, la Corte d’Assise d’Appello di Bari, alla fine del processo Gargano, assolse i malavitosi che si erano affrontati in modo crudele e cruento dal reato di associazione mafiosa, non riconoscendoli di fatto come mafiosi. Per i giudici il Gargano era stato insanguinato da lotte fratricide e non da una guerra di mafia. No, sul Gargano la mafia non esisteva.
Solo nel marzo del 2009 la Corte d’Assise di Foggia, nell’ambito del processo Iscaro-Saburo, sancì la mafiosità della Mafia Garganica.
Nell’area garganica lo scenario criminale è sempre in gran fermento, a causa di un processo evolutivo finalizzato a colmare i vuoti di potere determinati da arresti, condanne e dall’eliminazione fisica di esponenti di vertice degli opposti schieramenti riconducibili ai clan Li Bergolis e Romito.
Il Clan dei Montanari sembra essere al momento dominante, a tal punto da esercitare la sua influenza anche su altre famiglie come i Lombardi detti Lombardoni di Monte Sant’Angelo e i Frattaruolo.
Per quanto concerne lo schieramento opposto legato al clan Romito, fortemente ridimensionato da arresti e omicidi, si sta assistendo ad una costante riconfigurazione della relativa mappatura criminale. Dopo l’omicidio del capoclan reggente dei Ricucci, avvenuto l’11 novembre 2019 a Monte Sant’Angelo, il nuovo assetto si basa sulla nuova alleanza Lombardi-Ricucci-La Torre, attivi soprattutto nell’area di Manfredonia-Mattinata-Monte Sant’Angelo. A loro resta legata la frangia militare mattinatese.
L’arresto dei latitanti evasi dalla Casa Circondariale di Foggia in occasione delle proteste di marzo 2019 in piena emergenza Covid, avvenuto grazie a un’irruzione in un casolare dov’era in corso un summit di mafia, ha dimostrato che i sodalizi mafiosi sono ben strutturati, dotati di adeguate risorse economiche e capillarmente diffusi, capaci di controllare il territorio anche attraverso soggetti incensurati e insospettabili.
Il territorio di Vieste, per la morfologia delle sue coste e per la sua innata vocazione turistica, rappresenta una rotta importante per i traffici di marijuana provenienti dai Balcani, soprattutto dall’Albania, e un terreno fertile per riciclare denaro nelle attività legate al turismo.
Nel panorama criminale della provincia di Foggia e del promontorio del Gargano assumono sempre più un ruolo cruciale i centri di San Marco in Lamis, Rignano Garganico, Sannicandro Garganico e Cagnano Varano, soprattutto per quanto riguarda il narcotraffico.
A San Marco in Lamis e Rignano Garganico sono attivi i gruppi Martino e Di Claudio-Mancini, in passato fortemente contrapposti, con l’aggiunta di nuove figure referenti in quel territorio dei clan di Foggia e San Severo. A Sannicandro Garganico e Cagnano Varano, in seguito alla rinnovata alleanza tra nuove leve e figure storiche di un certo spessore, si registra il ritorno in auge della famiglia Tarantino, in passato coinvolta nella faida garganica che la vide contrapposta alla famiglia Ciavarrella.
La Guardia di Finanza, dopo accurate indagini economico-finanziarie, ha individuato alcune imprese intestate a prestanome riconducibili a uno dei fratelli a capo del clan Tarantino che percepivano indebitamente contributi pubblici eludendo la normativa antimafia.
A testimoniare l’infiltrazione mafiosa nelle pubbliche amministrazioni, ci sono i provvedimenti di scioglimento dei consigli comunali di Monte Sant’Angelo, Mattinata, Manfredonia.

Alto Tavoliere: la Mafia di San Severo
Dal maggio scorso è stata riconosciuta una nuova mafia, autonoma e indipendente dalla Società Foggiana: la Mafia di San Severo. È stata una sentenza del Giudice per l’udienza preliminare, Mario Galesi, che ha riconosciuto la mafiosità dei clan sanseverini. Le 32 condanne scaturite dal processo svoltosi con rito abbreviato hanno colpito affiliati ai clan Testa-La Piccirella e Nardino. Il processo nasce dall’operazione Ares del giugno 2019 che portò all’arresto di 50 persone. Nel comune dell’Alto Tavoliere si è verificato in questi giorni un gravissimo fatto di sangue: la sera dell’11 luglio, approfittando dei festeggiamenti per la vittoria dell’Italia agli Europei di calcio, qualcuno ha sparato, uccidendolo, il pregiudicato Matteo Anastasio. Nell’agguato è stato ferito gravemente il nipotino di 6 anni che era con lui.
La mafia sanseverese occupa un posto di rilievo nel traffico degli stupefacenti grazie ai rapporti con altri clan della provincia, ma ha allargato il suo raggio d’azione oltre i confini regionali con Camorra, ‘Ndrangheta e criminalità albanese. Quest’ultima rappresenta un importante canale di approvvigionamento della droga che approda in Abruzzo e Molise. La criminalità organizzata sanseverese diversifica le sue attività, operando anche in sinergia con altri gruppi. Estende così la propria influenza anche nei comuni limitrofi di Poggio Imperiale, San Paolo di Civitate, Apricena e Torremaggiore, come dimostrato dai sequestri di armi e droga avvenuti in zona, e anche dai danneggiamenti effettuati nei confronti di imprenditori o intimidazioni e agguati nei confronti di altri pregiudicati.

Basso Tavoliere: la Mafia Cerignolana
Nel Basso Tavoliere i riflettori vanno puntati sul comune di Cerignola, dove l’infiltrazione mafiosa condiziona diversi settori, anche della vita pubblica, come dimostra lo scioglimento del suo consiglio comunale che ha confermato “l’indiscusso controllo” del territorio da parte della mafia locale dotata “di un organo decisionale condiviso, che riesce a contemperare la molteplicità degli interessi illeciti in gioco riducendo al minimo le frizioni interne. Tuttavia non è facile capire la situazione all’interno dell’associazione mafiosa, considerato che i sodali devono rispettare rigide regole comportamentali, quasi di tipo militare.
Piarulli e Di Tommaso sono i clan dominanti. I primi, pur mantenendo il proprio vertice in Lombardia, agiscono attraverso referenti oltre che a Cerignola, anche a Trinitapoli e a Canosa di Puglia (BAT), stringendo alleanze con i gruppi garganici nell’area di Mattinata-Vieste. I secondi, approfittando della recente scarcerazione di alcuni elementi di spicco sembrerebbero aver ripreso nuova linfa dopo un lungo periodo in cui erano stati fortemente indeboliti dalle vicende giudiziarie e dal sanguinoso scontro con il clan ex Piarulli-Ferraro.


duomo tonti pubblico dominio

Il Duomo di Cerignola


La Mafia Cerignolana, a differenza degli altri sodalizi mafiosi foggiani che sono caratterizzati da legami familiari, si presenta come un’organizzazione imprenditoriale dotata di risorse umane ed economiche che le hanno permesso, negli anni, di allargare il proprio raggio d’azione fuori dai confini regionali, infiltrandosi frequentemente in diversi settori economico-finanziari al fine di riciclare capitali accumulati illecitamente.
La città di Cerignola rappresenta uno snodo regionale per i traffici di armi e stupefacenti. Sono molto frequenti i reati di natura predatoria: rapine ai tir, furti di autovetture e mezzi pesanti, compiuti in stretta collaborazione tra la criminalità comune e quella organizzata. Il che rende difficile distinguere i due fenomeni.
La criminalità cerignolana ha raggiunto un “elevato grado di professionalità” negli assalti ai portavalori, effettuati anche fuori regione, in quanto “dotata di un quid pluris sia in termini finanziari sia di caratura delinquenziale”.

L’area dei cinque reali siti, fortemente condizionata dalla criminalità cerignolana, comprende città come quella di Orta Nova in cui domina il clan Gaeta
L’esame globale del fenomeno mafioso nella provincia di Foggia conferma che le attività predilette dalle mafie sono il traffico delle sostanze stupefacenti e il racket delle estorsioni.
Una sottolineatura a parte va fatta per evidenziare la situazione in cui si trovano nel foggiano le aziende agricole sempre più colpite dai tentativi di infiltrazione criminale, che si può manifestare sia attraverso la richiesta di pagamento del “pizzo” e di imposizione di manodopera soprattutto nei servizi di supporto al comparto come trasporto e guardiania, sia in termini di indebolimento delle imprese (attraverso usura, furti di mezzi agricoli e i numerosissimi episodi di danneggiamento alle colture) e di concorrenza sleale, attraverso la contraffazione degli alimenti e le macellazioni clandestine.
Il business dell’agroalimentare rappresenta per la criminalità organizzata uno strumento molto efficace per affermare il controllo del territorio, influenzando il mercato immobiliare dei terreni agricoli, la commercializzazione degli alimenti, la gestione delle catene di supermercati, il settore dei trasporti e dello smistamento delle produzioni e, in definitiva, il prezzo finale dei raccolti. La maggiore pressione estorsiva sulle imprese che operano nel settore è frequentemente finalizzata all’accaparramento dell’azienda per incassare i fondi pubblici di sostegno allo sviluppo rurale, come corroborato dalle diverse interdittive antimafia emesse dal Prefetto di Foggia a carico di aziende operanti nel settore.
Legato alla contaminazione del settore agroalimentare, troviamo il fenomeno del caporalato, per evidenti ragioni connesso con quello dell’immigrazione clandestina nel territorio foggiano e alla gestione dei ghetti di Borgo Mezzanone e Rignano Garganico. A tal proposito, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, sulla pagina Facebook di Libera Foggia ha evidenziato che “occorre focalizzare il contrasto sull’intero fenomeno, adottare una strategia investigativa più ampia per individuare non solo i caporali ma anche le imprese che assumono in condizioni di sfruttamento. I ghetti, le baraccopoli, sono il serbatoio del caporalato. Il fenomeno è favorito anche dalla mancanza di adeguati servizi di trasporto ed occorre adottare tecniche di contrasto monitorando l’azienda attraverso droni, i controlli notturni, attività di intercettazione e controlli documentali”.
Per quanto riguarda le forme d’infiltrazione nell’economia legale, uno dei settori che attrae l’interesse dei clan è quello della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Atti intimidatori e danneggiamenti che colpiscono le aziende concessionarie di servizi, in particolare della gestione delle discariche, sembrano confermare le pressioni dei clan.
Indagini hanno appurato una continua attività di scarico di rifiuti (inerti da demolizione, materiale ferroso, bidoni in plastica, piastrelle, mattoni, amianto friabile, misti a terreno da scavo, provenienti da cantieri edili della provincia di Foggia) smaltiti in un’area protetta del “Parco Nazionale del Gargano” in agro di Manfredonia. Da altre indagini è emerso lo smaltimento illecito di tonnellate di rifiuti provenienti dalla Campania da parte di un’impresa di Lucera.

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