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“Generale da assolvere perché il fatto non sussiste”

La sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia? “Un bel libro di inchiesta, che si legge molto bene, con tante intuizioni, illazioni e mistificazioni. E non è con queste che si fa il processo”. E' così che l'avvocato Cesare Placanica, difensore del generale Antonio Subranni, nel corso della lunga requisitoria al processo d'appello sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia, in corso nell'aula bunker del carcere di Pagliarelli, a Palermo, dinanzi alla Corte d'Assise d'Appello presieduta da Angelo Pellino e da Vittoria Anania, giudice a latere, ha definito le motivazioni della sentenza di primo grado. Il legale, che è stato anche difensore di Domenico Papalia e Massimo Carminati (come lui stesso ha ribadito più volte in aula), ha puntato fortemente il dito contro l'atto d'accusa, prima di chiedere l'assoluzione del proprio assistito “perché il fatto non sussiste”.
In precedenza era stato l'altro legale dell'ufficiale, Fabio Ferrara, a parlare di una “trattativa che non esiste”.
“Nonostante tutto - aveva detto - non si è voluto credere agli ufficiali dell'Arma e si svaluta la parola di funzionari dello Stato, ministri e politici. Siamo di fronte ad un metodo inquisitorio che tradisce una impostazione ideologica della sentenza di primo grado. Secondo la sentenza impugnata, il generale Subranni avrebbe ideato la trattativa, un anno prima delle stragi del 1992, per salvare la vita del ministro Calogero Mannino. Il grande assente in questo processo è la prova, la sentenza - ha proseguito - si basa solo su ragionamenti logico-deduttivi. Cioè l'inconsapevole mancata proroga dei decreti del 41 bis da parte del ministro Conso sarebbe un provvedimento emesso per effetto di una notizia investigativa che sarebbe stata riferita da un inconsapevole vice direttore del Dap, Di Maggio. Il quale - ha argomentato - sarebbe Stato informato da Mori che lo avrebbe incontrato non si sa bene dove, come e quando. La prova dell'intervento salvifico - ha ribadito Ferrara - non è in atti documentali o addirittura in elementi indiziari ma è solo un ragionamento fallace e privo di fondamento. Basti ricordare che tutto sarebbe partito dal timore di Mannino per la sua vita e che per questo avrebbe 'innescato' Subranni. Un ragionamento però non accolto nel processo che ha visto assolto, in modo definitivo, lo stesso Calogero Mannino".
Nella loro lunga arringa i legali, ovviamente, hanno teso a sminuire tutta la serie di prove che sono emerse nel dibattimento, e non solo.
E' così che Corrado Carnevale, l'ex presidente della prima sezione penale della Cassazione che la stampa definì "ammazzasentenze" (fu accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in via definitiva dalla Cassazione nel 2002) viene considerato come un “genio assoluto del diritto”. Che il sette volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti viene considerato “assolto” nonostante il reato nei suoi riguardi sia stato prescritto. Che Calogero Mannino viene definito come un “perseguitato” dalla giustizia, in virtù di quelle sentenze definitive di assoluzione, tanto nel processo per concorso esterno, quanto in quello in abbreviato sulla trattativa Stato-mafia.
Nel ricordare le sentenze definitive, però, dovrebbero anche essere ricordate altre, come quella del 2014 in cui i giudici della Corte di Cassazione che respinsero la richiesta di risarcimento di Mannino per ingiusta detenzione avevano scritto nero su bianco che l'ex ministro Dc aveva "accettato consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice dell’associazione mafiosa (il boss Antonio Vella, ndr) e, a tale fine, gli aveva dato tutti i punti di riferimento per rintracciarlo in qualsiasi momento”.


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L'ex ministro, Calogero Mannino © Imagoeconomica


Nonostante il verdetto finale di assoluzione, ciò non significava che fosse stato arrestato ingiustamente. Ed anzi vale la pena ricordare che diversi riscontri “giustificavano, secondo la corte territoriale, il convincimento che il Mannino avesse consapevolmente intrattenuto rapporti con il mafioso Vella per motivi elettorali e avesse, in particolare, accettato che costui divenisse un suo procacciatore di voti, con l’effetto di ingenerare nella mafia agrigentina la convinzione che egli fosse soggetto disponibile per gli interessi dell’organizzazione”.
Ma di questo, ovviamente, nessuno tiene conto, così come nessuno vuole ricordare che Mannino è stato assolto nel processo trattativa per “non aver commesso il fatto” e non perché “il fatto non sussiste”.
Ed i fatti riguardano il dialogo che intercorse tra il 1992 ed il 1994 tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra. Un dialogo che ha visto la mafia intervenire con bombe e delitti che hanno sconquassato la nostra Repubblica.
Ogni elemento raccolto sulla questione Mannino, a cominciare dalle testimonianze dei giornalisti Antonio Padellaro e Sandra Amurri è stato completamente sminuito dalla difesa Subranni che ha suggerito di rileggere gli appunti di Padellaro per quella mancata intervista all'ex ministro Dc.
E facendolo ci si rende conto dei timori che Mannino aveva: “Per il maxiprocesso fu raggiunta una specie di accordo con il potere politico. Voi - disse Cosa Nostra - ingabbiate la mafia perdente e alcuni marginali della mafia vincente. Ma l’accordo è che alla fine di questo iter c’è la Cassazione, che ci rimetterà in libertà. Noi nel frattempo ce ne restiamo buoni e calmi continuando a fare i nostri affari. Ma il Governo non ha rispettato i patti e Andreotti ha fatto approvare una serie di leggi repressive”. Padellaro aveva raccontato agli inquirenti di essersi trovato di fronte ad un uomo letteralmente terrorizzato che si era lasciato andare ad esternazioni alquanto personali: “Ho orrore di restare in questa condizione di condannato a morte. Sento che sto per perdere la ragione. Maledico il giorno in cui ho iniziato a fare politica”.
Secondo l'accusa Mannino, rivolgendosi a Subranni, in qualche modo spinse il Ros ad attivarsi. E su quel dialogo che Giuseppe De Donno e Mario Mori avviarono dopo la strage di Capaci, Placanica, rivolgendosi alla Corte di assise, e in particolare ai giudici popolari, ha affermato: "Non facciamo le anime belle. Se non saltiamo in aria a volte è perché ci sono i servizi segreti. Che esistono, come in tutti gli Stati. Mi dispiacciono quindi le ombre sul maresciallo Guazzelli e sul suo omicidio, inteso come avvertimento a Mannino. Come se non fosse provato che Guazzelli è così bravo che quando va in pensione se lo prendono i Servizi”.

La Falange armata
Per Placanica non c'è alcun nesso tra la morte di Guazzelli e quella precedente di Salvo Lima. Poco importa se i due attentati sono stati rivendicati con l'uso delle stesse identiche parole (“Tenendo fede all’annuncio fatto, il comitato politico della Falange Armata, in piena autorità e perfetta convergenza, si assume la paternità politica e la responsabilità morale dell’azione condotta ancora in Sicilia contro il maresciallo dei Carabinieri Giuliano Guazzelli). Una sigla, quella della Falange Armata, che torna anche in altri delitti. Ma per l'avvocato di Subranni non ha alcun significato. E la stessa non ha nemmeno nulla a che vedere con i Servizi di sicurezza o con Domenico Papalia (suo assistito in altri processi), capomafia di 'Ndrangheta che fu condannato per l'omicidio dell'educatore carcerario Umberto Mormile. Nel processo d'appello i collaboratori di giustizia hanno affermato che proprio i servizi consigliarono l'utilizzo della famigerata sigla. Ma per il legale i collaboratori di giustizia raccontano solo frottole. Così come Francesco Onorato, o Giovanni Brusca. E' proprio parlando dell'ex boss di San Giuseppe Jato che Placanica ha parlato di non credibilità in quanto “privo di moralità” (“Brusca non si può credere per l'amoralità che ha avuto nella sua vita. Lui passeggia libero per la promessa di impunità che permette ai pentiti di raccontare storie, che cambia versione quando capisce che potrebbe essere scoperto”).
Ovviamente il legale ha anche parlato delle durezze del 41 bis, citando le testimonianze di un altro suo assistito (Massimo Carminati, tornato libero per decorrenza dei termini di custodia cautelare dopo le vicende processuali di Mafia Capitale), ed ha affermato che le “coperture politiche” che il Ros cercava nel comunicare quel contatto con Vito Ciancimino erano solo per avere “spazio di autonomia” nel loro operato per la ricerca di latitanti e nell'utilizzo dei confidenti. Ma se così era perché fino a dicembre (momento dell'arresto di Vito Ciancimino) l'autorità giudiziaria non sarà mai informata? E, soprattutto, perché negli archivi dei Carabinieri non è stato trovato alcun documento riferibile a quell'attività?
Il legale ha ricordato le testimonianze della dottoressa Liliana Ferraro, della dottoressa Contri, di Martelli e di Violante (senza ricordare i vent'anni di silenzio che li hanno contraddistinti) e si è addirittura spinto ad affermare che Paolo Borsellino “fosse d'accordo con quella iniziativa”. Un assunto, quest'ultimo, che fu fatto proprio anche dai giudici d'appello del processo Mannino i quali sostennero persino che i carabinieri stessi avessero avvisato Borsellino.
Un elemento che non è stato mai sostenuto neanche dagli stessi militari.


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L'ex 'capo dei capi', Totò Riina © Shobha


L'arresto di Riina
Ovviamente è andato in scena il solito let motive di giustificazioni per un dialogo finalizzato alla “fine delle stragi”. E per negare l'esistenza di una trattativa sono state ricordate le dichiarazioni di Cancemi e Brusca che hanno parlato in maniera “generica di contatti di carattere politico” e loro non parlano dei contatti tra Ciancimino ed i carabinieri.
“Dopo l'arresto di Ciancimino - ha ricordato Ferrara - la prova che Riina avrebbe inviato le sue richieste ricattatorie la si fa ricondurre ad un comunicato emesso dai carabinieri nel momento dell'arresto di Riina. Qui si parla di trattativa. Ma sono questi elementi di prova che possono dare una solidità all'accusa? C'è una illogicità diffusa nella sentenza che si scontra con la realtà dei fatti”. A ben vedere, però, in quel comunicato vi sono delle affermazioni che non possono essere poste in secondo piano.
Basta fare un passo indietro e tornare al 15 gennaio 1993. A parlare durante l'affollatissima conferenza stampa era il gen. di Brigata Giorgio Cancellieri: “Io debbo dare una buona notizia, Riina Salvatore è stato catturato dai Carabinieri questa mattina a Palermo”. Il Generale spiegava che la personalità di Toto Riina “è nota”. “Fa parte, direi, della letteratura della mafia”. “A lui - sottolineava l'alto ufficiale - sono riconducibili tutta una serie di gravissimi e reiterati episodi di criminalità nell’Isola, nell’intera Nazione e anche fuori del territorio dello Stato. Fenomeni che hanno aggredito nei gangli vitali la popolazione, il cittadino comune, qualsivoglia attività produttiva, con attacchi ripetuti contro le istituzioni statali”. A un certo punto il gen. Cancellieri entrava ulteriormente nello specifico. Ed è in quel momento che la questione del patto tra la mafia e lo Stato entra di soppiatto nel discorso sulla cattura del capo di Cosa Nostra. “E questo - evidenziava Cancellieri riferendosi agli attacchi della mafia contro esponenti delle istituzioni - in un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico, che addirittura potrebbe avere dell’inaudito e dell’assurdo, di mettere in discussione le autorità istituzionali. Quasi a barattare, a istituire una trattativa per la liquidazione di un’intera epoca di assassinii, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita civile nazionale”. In quella occasione nessuno chiese al Generale in base a cosa ipotizzi simili scenari, né tanto meno c'è qualcuno che approfondisca queste inquietanti osservazioni. Non solo. Nessun lancio di agenzia o articolo di stampa nei giorni successivi riportò una tale affermazione. Eppure, anche alla luce degli altri elementi raccolti nel tempo, quel passaggio resta di rilievo.

Le parole di Agnese Borsellino
Ancora il legale dell'allora Comandante del Ros ha parlato delle parole di Agnese Piraino Leto, che disse che Subranni era “Punciuto”. “Queste parole sono dolorosissime per il mio assistito - ha detto - dette a distanza di anni. Non sappiamo chi avrebbe detto quelle cose a Borsellino. Spero che non siano state dette su qualche spinta suggestiva. Certo è che il loro valore è neutro”.
Una considerazione discutibile, quest'ultima, specie se si considerano le spiegazioni date dalla vedova Borsellino. “Avevo paura - disse ai pm nisseni - non tanto per me ma avevo paura per i miei figli e poi per i miei nipoti. Adesso però so che è arrivato il momento di riferire anche i particolari più piccoli o apparentemente insignificanti”.
Parole, quelle della moglie di Borsellino, fastidiose. La donna ai magistrati aveva sempre raccontato che “il 15 luglio 1992, verso sera, conversando con mio marito in balcone lo vidi sconvolto. Mi disse testualmente: ho visto la mafia in diretta, perché mi hanno detto che il generale Subranni era punciutu. Tre giorni dopo, durante una passeggiata sul lungomare di Carini, mi disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere”. Parole che restano al di là dell'archiviazione disposta dal Tribunale di Caltanissetta su richiesta della stessa Procura.
Nel corso dell'arringa nessuna parola è stata detta sulle vicende che hanno riguardato Subranni ed il caso Impastato.
Il processo è stato poi rinviato al prossimo 14 luglio quando sarà la volta della difesa di Marcello Dell'Utri.

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