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Il fondatore di Wikileaks ha spento 50 candeline in carcere. La sua colpa? Aver svelato l’arcano sui “padroni universali”

C’è un versetto più o meno conosciuto nel Vangelo Apocrifo di Giovanni che recita: “La verità vi renderà liberi” (8, 32). Una frase, questa, di un’universalità tale che anche chi in Dio non crede può tranquillamente abbracciare. Al giorno d’oggi ci sono alcuni uomini e alcune donne che, sebbene lontani e lontane dalla sfera religiosa, su questo passaggio del Vangelo hanno costruito la propria identità e caratura morale. Tra loro si colloca indubbiamente Julian Assange. Nato il 3 luglio 1971 a Townsville, Julian Assange è conosciuto alle cronache per essere fondatore di Wikileaks, testata giornalistica con la quale ha rivelato al mondo la vera faccia dell’imperialismo occidentale contemporaneo. Crimini di guerra, delitti, misteri, corruzione, affari miliardari di lobby e think tank privati. Insomma, l’arcano dei Paesi cosiddetti democratici. E per questa nobile quanto rischiosissima attività di servizio pubblico, qualche giorno fa Assange ha spento 50 candeline dietro le sbarre di un carcere di massima sicurezza. Lontano dai suoi figli, lontano dalla sua compagna, lontano da suo padre, lontano dalla libertà. Se volessimo utilizzare due espressioni potremmo dire che Assange ha sinora vissuto la sua intera esistenza “contro” e “dentro”. “Contro” perché già da giovane era un ragazzo “controcorrente”, “controtendenza”. Diversamente dai suoi coetanei non amava socializzare, uscire la sera, preferiva invece dilettarsi con i computer e i sistemi operativi. Sviluppava infatti capacità informatiche sopraffine che sfruttò, “per gioco” (secondo i giudici che lo incriminarono e archiviarono appena maggiorenne per reati informatici), per entrare ad esempio nei server inviolabili di organi di Stato come il Pentagono o la NASA. “Dentro”, invece, perché - tra “barriere” di casa dovute alle violenze del compagno della madre, l’assenza del padre, gli psicologi, i numerosi trasferimenti, e poi la vita da semi-fuggitivo nascondendosi nei posti più anonimi d’Europa quando fece le prime pubblicazioni come “hacker” (come lo definisce chi lo odia) ancor prima di creare Wikileaks - ha sempre vissuto in gabbia. Per non parlare dei 7 anni (dal giugno 2012) in cui il giornalista e programmatore informatico si è visto costretto a vivere, rischio l’arresto da parte di Scotland Yard, come rifugiato politico nelle stanze dell’ambasciata ecuadoregna a Londra per scappare dai magistrati che lo accusavano falsamente di violenza sessuale e cospirazione (tra l’altro solo di recente il testimone chiave dell'accusa ha ammesso di aver detto il falso). 7 anni trascorsi sorvegliato come un detenuto. Incontri centellinati con moglie, giornalisti, avvocati e diplomatici, anche loro sorvegliati e intercettati, ai quali sono seguiti altri 2 anni, e chissà quanti ne seguiranno, all’interno di un carcere di massima sicurezza sotto torture psicologiche e a rischio suicidio attesa di un processo farsa di estradizione negli Stati Uniti dove Assange rischia una condanna fino a 175 anni di carcere per rivelazione di segreto di Stato.

Paladino della verità
Ma qual è la ragione di questo accanimento giudiziario (e mediatico)?. “Una delle migliori forme per ottenere giustizia è esporre l’ingiustizia”, diceva Assange in una video conferenza ad Austin (Texas), quattro anni fa. E per “esporre l’ingiustizia” Assange si è rifatto al principio machiavellico de “il fine giustifica i mezzi”. Ma quindi quali sono questi mezzi? La risposta è Wikileaks, la piattaforma online di informazione fondata dallo stesso programmatore australiano nel 2006 che riceve e pubblica documenti di carattere governativo o aziendale proveniente da fonti coperte dall'anonimato e da whistleblower. Un portale totalmente trasparente al quale può accedere chiunque e dovunque. Wikileaks ha permesso a centinaia di milioni di utenti di avere accesso con un click a informazioni indicibili su fatti compiuti o che riguardano i principali sistemi di potere mondiali: dai governi, ai servizi di intelligence, alle forze armate, fino alle maggiori banche continentali. Una mole infinita di documenti dalla veridicità incontestabile. Degna di nota la maxi pubblicazione del 2010 di 400 mila segretissimi file sulla cosiddetta “guerra al terrore” americana in Iraq.


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Manifestazione in favore di Assange © John Englart (Takver) is licensed under CC BY-SA 2.0


Tra questi file estrapolati direttamente, grazie all’aiuto dell’ex militare USA Chelsea Manning (al secolo Bradley Manning) anche lei perseguitata da governi, servizi, e magistratura, è presente il video “Collateral Murder” che riprende un elicottero Apache americano mentre fa strage di civili a Baghdad (tra questi anche due fotografi Reuters). Si è trattata della più grande pubblicazione di massa di file riservati governativi. I “padroni universali”, come amava chiamarli il compianto Giulietto Chiesa (grande estimatore di Assange), si sono ritrovati nudi per la prima volta davanti a 6 miliardi di persone. Questo perché finalmente la popolazione ha avuto la possibilità di mettere mano agli scheletri nascosti negli armadi dei potenti della Terra tramite le immagini, mail e file diffusi da Wikileaks. Documenti inquestionabili sotto il punto di vista della autenticità. Julian Assange ha in questo modo provocato la “Bestia”, la stessa di cui parla l’ex magistrato Carlo Palermo, ed è così ufficialmente diventato il nemico numero uno dell’occidente per essere riuscito, come nessuno prima di lui, a mettere con le spalle al muro un intero sistema di potere criminale che poggiava sulla disinformazione e sull’impunità. Per “i padroni universali” Julian Assange è colpevole di aver detto la verità. Lo stesso “reato” di cui, se volessimo azzardare un paragone, era stato accusato e condannato al rogo Giordano Bruno. Per questa ragione Assange è stato vittima di quello che gli esperti chiamano “smear campaign”, ovvero una sibillina campagna diffamatoria volta a danneggiare o mettere in discussione la reputazione di qualcuno. Per delegittimarlo Assange è stato accusato di stupro, molestie e coercizione illegale ai danni di due donne in Svezia. Tutte accuse archiviate dopo una causa legale rocambolesca in cui sembra che le stesse vittime non avessero mai realmente denunciato Assange ma era stata la questura a portare avanti autonomamente la macchina inquisitoria (falsificando anche alcuni documenti). Sono però rimaste in piedi, per adesso, le pesantissime accuse da parte degli Stati Uniti. 17 capi d’accusa legati all’Espionage Act, una legge draconiana del lontano 1917, parliamo quindi di oltre un secolo fa, pensata per i traditori che passano informazioni al nemico. Un nemico che a rigor di logica andrebbe individuato nella popolazione civile dato che la colpa di Assange è quella di aver diffuso ai cittadini, alla gente comune, quel tipo di informazioni. Il ché la dice lunga sul concetto di democrazia dell’establishment americana.

"Colpirne uno per educarne cento"
Ad ogni modo, ancora oggi gli Stati Uniti vogliono la testa dell’australiano e non demordono dal chiedere alle autorità britanniche, che nell’aprile 2019 sono entrate in ambasciata per arrestarlo (un arresto, secondo il padre di Assange, "barattato" dall’Ecuador con un maxi-prestito dall'Fmi di 4,2 miliardi di dollari), di estradarlo. Il processo di estradizione, svoltosi a porte chiuse e in maniera discutibile con, tra le tante, l’impossibilità per Assange di colloquiare agevolmente con i suoi avvocati (in aula era rinchiuso in una teca di vetro), è terminato lo scorso 4 gennaio con la respinta della richiesta avanzata dai procuratori americani. “Una vittoria”, l’avevano definita i sostenitori della campagna contro l’estradizione. Ma di vittoria c’è ben poco, come ha spiegato Niels Melzer (l’inviato ONU contro le torture che accertò le gravissime condizioni detentive di Assange). “Se il giudice inglese avesse concesso l’estradizione, come tutti si aspettavano, la gente avrebbe iniziato a farsi domande e lo staff legale avrebbe appellato la sentenza portando alla High Court inglese tutti gli argomenti legali: le accuse politicamente motivate, il rischio per la libertà di stampa, le violazioni dei suoi diritti umani. La High Court è molto più indipendente di quella di primo grado e li avrebbe esaminati tutti. E invece il giudice ha confermato tutto quello che volevano gli Stati Uniti, tranne l’estradizione, perché le condizioni di detenzione negli Stati Uniti potrebbero portarlo al suicidio e sarebbero oppressive”. “Ora gli Stati Uniti - aveva detto a Il Fatto Quotidiano Melzer - hanno fatto appello e possono offrire garanzie diplomatiche che le sue condizioni di detenzione non saranno oppressive, la ragione per cui l’estradizione è stata negata verrebbe così rimossa. La High Court potrebbe decidere di estradarlo, oppure che, a causa di vizi procedurali, bisogna ricominciare daccapo e ci vorrebbero un altro anno o due”. In tutto questo, sempre riportando le accuratissime parole dell’esperto delle Nazioni Unite, da oltreoceano “sperano che a un certo punto Assange si suicidi o abbia un crollo mentale che richieda l’internamento. È una delle possibilità, come lo è che si ricominci dal primo grado e poi gli Stati Uniti presentino un nuovo atto di incriminazione, in modo da tenere Julian Assange in un ciclo giudiziario permanente per altri cinque o dieci anni”. Insomma, a detta di Melzer, “lo vogliono neutralizzato e in silenzio”. Questo “per punire lui personalmente, ma soprattutto per mettere paura a tutti, per essere sicuri che nessuno lanci una nuova WikiLeaks e riveli tutti quei segreti”. Una punizione esemplare, quindi. “Colpirne uno per educarne cento”, diceva Mao Se Tung.

La libertà di Assange cruciale per tutti
La questione Julian Assange deve per questa ragione interessare tutti, dalla popolazione civile fino ai più alti vertici di governo, perché riguarda il diritto inalienabile di libertà di informazione, tutelata, almeno a parole, da tutte la Carte Costituzionali dei paesi democratici. Eppure, se per esempio prendessimo in esame il caso dell’Italia, la vicenda sembrerebbe non interessare in alcun modo alle sfere del potere. Singolare, ad esempio, il caso della discussione di mozione per il riconoscimento di Assange come rifugiato promossa alla Camera dal deputato Pino Cabras (Alternativa C’è) che è stata nuovamente rinviata, preferendogli, per citarne una, la discussione sull’eredità culturale italiana negli Stati Uniti, con particolare riferimento alla figura di Cristoforo Colombo. Il colmo dei colmi. “La prigionia e la libertà di Julian Assange costituiscono una questione cruciale per noi”, ha evidenziato Cabras in un post su Facebook. Non solo. In questi ultimi mesi sul caso è tornato un silenzio mediatico tombale che per pochi giorni si era acceso solo in tempo di sentenza a inizio anno. Julian, ricordiamo, qualora venisse estradato in America rischierebbe una condanna fino a 175 anni di carcere (10 anni per ogni capo d’imputazione). Estradarlo significherebbe condannarlo a morte. E con lui, è bene sottolinearlo, condannare a morte il giornalismo libero, anima e sale della democrazia.

Foto di copertina © WFMU is licensed under CC BY-NC-SA 2.0

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