Le attività investigative hanno dimostrato l’arricchimento del mandamento di Pagliarelli con fiumi di soldi occulti
A Palermo, in questi ultimi anni, le varie operazioni antimafia della Dda hanno decimato gran parte dell’organicità militare di Cosa nostra. Su tutte vanno ricordate le operazioni Cupola 2.0, New Connection, ma anche la più recente operazione “Bivio” a Borgo Vecchio. Con gli arresti sono sopraggiunti vari e vasti sequestri e confische eppure sembra che ciò non abbia colpito più di tanto i boss che in poco tempo si sono riorganizzati e sono riusciti a trovare altri tesoretti sui quali fondare la riorganizzazione. Questo spaccato si è manifestato di recente nel mandamento di Pagliarelli dove qualche mese fa i militari del Comando provinciale dei Carabinieri hanno messo le manette a cinque uomini. Tra loro anche il reggente Giuseppe Calvaruso (44 anni), ufficialmente attivissimo imprenditore edile che spesso viaggiava oltreoceano in Brasile, da dove tra l’altro veniva il giorno in cui è stato arrestato all’aeroporto di Punta Raisi. Calvaruso era in contatto con un mister X la cui famiglia in passato avrebbe speso e investito cifre abnormi. “Quell’amico mio che ti ho presentato ieri... è uno non ricco, di più”, diceva intercettato a un suo sodale. “Nel 1995 gli fanno un sequestro a suo padre, settecento miliardi di lire, pensa suo padre era uno degli imprenditori più forti di tutta la Sicilia... poi gliel’hanno dissequestrato il patrimonio. Quello che hanno fatto a Riccione è impressionante”. I due si confrontavano su quale zona investire. Calvaruso è uno che gode di “buona reputazione” tra la gente. Come scrive Salvo Palazzolo su Repubblica, Calvaruso dopo aver scontato il carcere per una condanna per associazione mafiosa aveva ripreso a tessere relazioni e amicizie, soprattutto tra la borghesia della città. “Tu hai avuto quello che hai avuto - gli diceva Giuseppe Amato, uno dei titolari del ristorante Carlo V di piazza Bologni - diciamo che tu sei mancato... le persone perbene come te mancano”. “E lo so”, gli rispondeva compiaciuto per gli elogi Calvaruso. Amato ribadiva: “Le persone come te mancano. Io, mio fratello... siamo sbandati... ora ci sei tu di nuovo... abbiamo bisogno... perché sei una persona educata... una persona di etica, di certi principi... Questo è il discorso. E bisogna sempre andare a migliorare nella vita. Gli amici ci vogliono, Peppe”. Insomma l’assenza di un capo mandamento si era sentita tra la borghesia che tentava di riavvicinarsi al boss per convenienze di carattere affaristico sulle quali basare altri e alti affari. “Un impero” desiderava creare il fratello di Amato con Calvaruso. Un impero da consolidare e poi “campare di rendita". Per raggiungere questo obiettivo i precedenti di Calvaruso, che prese il posto di Settimo Mineo, l’uomo che voleva riorganizzare Cosa nostra, non erano un problema. “Ci sono tutte le prerogative”, rassicurava. E Benedetto Amato ribadiva la sua fedeltà: “Come si dice... squadra che vince non si cambia. Praticamente noi dovremmo conservare i soldi di questa miniera che ci ha lasciato mio nonno e praticamente se è il caso costruire altre situazioni... e questo mai abbandonarlo”. Tesori antichi, situazioni da costruire, tutti fattori propedeutici di una volontà imperterrita di Cosa nostra, e soprattutto del ricco mandamento di Pagliarelli, di accumulare ricchezze nonostante il lavoro di contrasto della Dda.
Gli affari del “Lupo”
Sempre a Pagliarelli ci sarebbe un altro uomo d’oro dalle forte ambizioni. Il suo nome è Francesco Paolo Maniscalco, 57 anni, legato alle famiglie di corso dei Mille e Palermo centro. Il suo nome è salito alla ribalta dopo aver rubato dieci milioni di euro per conto di Cosa nostra nel 1991 al Monte dei Pegni della Sicilcassa. Arrestato, Maniscalco è tornato in libertà nel 2010. Con un patrimonio di segreti attorno alle relazioni che lo legano agli insospettabili, quelli che trovano ancora conveniente fare affari con i mafiosi. Così, dopo la scarcerazione, il “Lupo” (così lo aveva chiamato il figlio di Totò Riina) ha investito nella grande distribuzione, nel commercio di caffè. E anche nel settore dei giochi on line dove bazzicava un certo Salvatore Rubino, uno degli imprenditori più noti nel settore delle scommesse. I due sono diventati soci occulti lavorando fianco a fianco: Maniscalco investiva e Rubino gestiva gli investimenti. Anche attraverso una rete di altri imprenditori che erano riusciti ad acquistare alcune concessioni dei Monopoli, la porta per controllare decine di agenzie al Sud. Un patto spregiudicato che non rinunciava neanche agli introiti illegali: in ogni agenzia, c’era infatti un terminale collegato a un server con sede a Malta o nei paesi dell’Est, come riporta Palazzolo su Repubblica Palermo. Siti sui quali girano le grosse puntate clandestine. A Maniscalco gli inquirenti hanno confiscato vari beni per un valore di 16 milioni di euro e sequestrato un bar ristorante a Trastevere, nel cuore di Roma. Eppure l’imprenditore non si è rassegnato e ha comunque trovato il modo di rimettersi in carreggiata. I carabinieri gli hanno trovato orologi preziosi e gioielli in una cassetta di sicurezza, all’interno di un istituto di credito di Trastevere. In un garage, erano invece conservati tanti quadri, su cui adesso si sta indagando, per scoprire se sono rubati. Si tratta della stessa cosa che si è vista a Pagliarelli, tesori che, nonostante confische e sequestri, continuano a spuntare. Ora sta agli inquirenti capire come.