Il racconto del procuratore aggiunto di Firenze che più volte interrogò il pentito di San Giuseppe Jato
Il caso Brusca “rappresenta uno stimolo per ulteriori collaborazioni di uomini che rivestono posizioni di comando nei sodalizi mafiosi”. A dirlo è il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano sulla recente scarcerazione del boss di Cosa Nostra Giovanni Brusca. “La premialità è determinante per incentivare le collaborazioni, soprattutto di uomini di vertice, che rappresentano uno strumento fondamentale per indagini e processi”, ha detto il magistrato. “Lo aveva ben compreso Falcone e la sua intuizione venne regolamentata per la prima volta con il decreto legge n. 8 del 1991. E non c’è solo la mafia. I collaboratori sono fondamentali anche nel contrasto al terrorismo. È comprensibile l’indignazione dei familiari delle vittime - ha precisato il procuratore - ma il contributo dei collaboratori di giustizia, severamente controllato e verificato, è irrinunciabile e fondamentale. Con Brusca lo Stato ha vinto più volte: ha vinto perché è riuscito ad arrestarlo quel 20 maggio del ’96, ma anche perché ha ottenuto la sua collaborazione e il suo ravvedimento. Il suo ritorno in libertà lancia ai mafiosi un messaggio importante: se la loro collaborazione è reale, leale e significativa, vi è la possibilità di cambiare vita”, ha spiegato. Luca Tescaroli conosce molto bene il boss stragista, esecutore materiale della strage di Capaci e mandante, tra gli altri, dell’omicidio del piccolo Di Matteo. Nella sua intervista ha raccontato anche di alcuni momenti in cui ha interrogato l’ex capo mafia.
“L’ho interrogato molteplici volte, dal 1996 (anno dell’inizio della collaborazione, ndr) fino agli anni 2000, sia in fase di indagine che in dibattimento. Nella fase iniziale della sua collaborazione è stato escusso congiuntamente da tre procure: Caltanissetta, Palermo e Firenze. Io ero sostituto procuratore di Caltanissetta. Gli interrogatori sono iniziati il 27 luglio 1996. Le sue indicazioni hanno consentito di arrestare Carlo Greco, uomo fidato di Bernardo Provenzano, co-reggente del mandamento della Guadagna. Ha fornito anche elementi utili a rinvenire armi conservate in un bunker di Giuseppe Monticciolo e di un immobile nella disponibilità di Vincenzo Chiodo (uomo della famiglia di San Giuseppe Jato, quella alla quale apparteneva lo stesso Brusca) sul quale si sarebbe dovuto costruire un deposito di armi”. Il suo percorso di collaborazione con lo Stato, specie nelle prime fasi, “è stata travagliata”, ha raccontato Tescaroli. “Cercò di attuare dapprima un depistaggio, poi il 14 ottobre 1996 gli venne contestato il delitto di calunnia. Il 7 novembre 1996 Brusca ammise di aver detto il falso sull’omicidio di Girolamo La Barbera, padre del boss divenuto collaboratore Gioacchino La Barbera, trovato impiccato in una stalla: prima parlò di un suicidio, poi dichiarò che era stato lui il mandante di quell’omicidio, in quanto non aveva fornito le informazioni su dove si trovava il figlio”. In questo senso si inserisce anche la vicenda ai danni di Luciano Violante.
“Sfruttando il fatto che avevano viaggiato sullo stesso aereo, Brusca indicò Violante, ex magistrato ed ex parlamentare, come punto centrale di una trattativa Stato-mafia. Un diabolico progetto che Brusca poi abbandonò, ammettendo di avere mentito al riguardo. E ancora, agli inizi dei suoi interrogatori e nel processo di I grado per la strage di Capaci aveva cercato di circoscrivere la responsabilità nella deliberazione della strage di Capaci e, più in generale dei cosiddetti omicidi eccellenti, solo ad alcuni membri della “commissione provinciale” dei fedelissimi di Salvatore Riina. Non era così”. Il punto di svolta in cui veramente il boss di San Giuseppe Jato si decise a saltare il fosso e raccontare la verità ai pm avvenne intorno al settembre 1998 “quando l’ho interrogato, con alcuni colleghi di Caltanissetta”. In quell’occasione, ha raccontato Luca Tescaroli, “spiegò nel dettaglio il meccanismo decisionale operante in seno a Cosa Nostra nella deliberazione dei cosiddetti delitti eccellenti e fornì preziose indicazioni per individuare le ragioni della strage di Capaci. Elementi che contribuirono alla condanna in appello di 4 imputati assolti in primo grado. Da quel momento in poi il suo rapporto con lo Stato è stato di assoluta collaborazione. Fui io a predisporre, per il mio ufficio, i contenuti della richiesta di applicazione del programma di protezione nei suoi confronti il 28 gennaio del 1999”, ha concluso.
Foto © Paolo Bassani
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