Ridimensionare le responsabilità e il ruolo dei familiari più stretti, a partire dalla moglie e dalla figlia. Nascondere il reale giro economico e di affari. Contraddire e sabotare le dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia. Per la procura antimafia di Catanzaro erano questi i reali obiettivi del boss Nicolino Grande Aracri quando ha annunciato di voler collaborare della giustizia.
“Una farsa” come lui stesso l’ha definita in un breve messaggio inviato ai suoi familiari dopo essere crollato nel corso del settimo interrogatorio a cui è stato sottoposto. Ma forse non solo. La procura - si legge in una relazione depositata agli atti di un procedimento in corso di fronte al gip contro il fratello del boss, Domenico Grande Aracri "perveniva a conclusivo giudizio di inattendibilità (rectius non credibilità) del dichiarante, con il sospetto peraltro che l'intento collaborativo celasse un vero e proprio disegno criminoso".
La necessità di vedere il bluff
Insomma Nicolino Grande Aracri ha solo finto di volersi pentire. Il rischio che fosse un bluff, i magistrati di Catanzaro lo hanno sempre tenuto in conto. Il boss non ha mai revocato il suo storico avvocato e con il dibattito sull’ostativo in corso, dunque la concreta possibilità di beneficiare a breve di sconti di pena che ad oggi gli sono preclusi, rendeva quanto meno curiosa la sua asserita determinazione a parlare davvero. Ma bisognava provare.
Solo di rado nella storia della ‘Ndrangheta un boss del calibro di Nicolino “Mano di gomma” si è pentito e ha dato il proprio contributo alla ricostruzione degli assetti dell’organizzazione. L’occasione non si poteva sottovalutare. Per questo, è stato sottoposto più volte a interrogatorio. Sette per la precisione. Ma le sue dichiarazioni si sono dimostrate sempre “stridenti con i dati di prova oggettivi acquisiti (spesso sorretti da granitici giudicati) bensì orientate verso ricostruzioni del tutto generiche, frutto di incredibili e suggestive valutazioni del dichiarante”.
Obiettivo, tutelare la famiglia
Mano di gomma voleva “salvare” la sua famiglia. A partire dalla moglie Giuseppina Mauro, e dalla figlia Elisabetta, arrestate entrambe nel novembre scorso nell’inchiesta Farmabusiness, che ha travolto anche l’ex presidente del Consiglio regionale calabrese, Mimmo Tallini. Per il boss, l’arresto delle due donne è stato un abbaglio. La moglie “non sa fare una O con il bicchiere” e se era lei a interloquire con chiunque si presentasse nella tavernetta della villa di famiglia, storicamente quartier generale del clan, “tutti quanti andavano lì a parlare, nipoti, fratelli, sorelle... Allora li c'era mia moglie, magari rispondeva come un pappagallo”. La figlia invece, secondo il boss, sarebbe solo una vittima delle circostanze. “Questo era il problema, doveva dare i soldi a me mio nipote. Per questo era coinvolta mia figlia”. In generale, “sendentendo qualche cosa magari... si intromettevano nel discorso però non avevano nulla a che vidìre insomma alla fine”. Pure il fratello Domenico va salvato, quindi Nicolino è pronto a giurare che nel business scoperchiato dall’inchiesta Farmabusiness “sicuramente se c’era qualche cosa di illecito sicuramente non si mintìva, sicuro, sicuramente al cento per cento”. Peccato che tutto si sia sviluppato quando lui, gli fa notare il procuratore Guarascio, stava in carcere. “Questo lei non lo sa. Lei della questione dei farmaci non sa praticamente nulla”. Ma, prova a cavarsela Grande Aracri “No, no, perché non c’era in programma, se c’era ne parlavamo pure ntu Kyterion”. Traduzione, nelle intercettazioni finite agli atti dell’inchiesta Kyterion.
Il sangue è sangue
Chi secondo il boss ha parlato assai è il nipote Salvatore. “Perché mio nipote Salvatore “u Calamaro”, chidhu dha, no? Quello là no? Pìava, si presentava a ra casa, s’assettava dha comu u Papa, d’accussì si mintìa e parlava con tutti quanti là, parlava con tutti quanti, magari quello parlava anche con le donne, parlava di qualsiasi cosa parlava pure cu i fimmini. Però alla fine mettiamo, no? …voi vedete, no? …voi vedete se quando c’ero io se quello lì qualche volta ha venuto dha a parlare cu mmia!”. Insomma, si è allargato approfittando dell’assenza del boss ma senza conoscere le regole di condotta minime per questo, scrivono i magistrati, Grande Aracri tendeva a ridimensionarne la caratura “in seno al sodalizio da lui capeggiato giacché, col suo atteggiamento, aveva “inguaiato” i suoi familiari”. Anche il genero - sostiene il boss - in fondo era solo una sorta di avatar di quello che negli anni della sua detenzione era diventato il vero capo del clan, Giovanni Trapasso. Uno esterno alla famiglia e su cui il boss canta come un usignolo “Io ero fuori quando abbiamo deciso queste spartizioni, io ero fuori. Gli accordi erano pacificamente fatti, poi a me mi hanno arrestato, in pratica, la gestione dopo passava a Trapasso... ci davano a mio genero per portarli all'isolitani, pecchi u Trapasso non era visto tanto bene dall'isolitani... Allora che cosa è successo? Quando prendeva i soldi Trapasso, poi c'i passava a mio genero e mio genero li doveva dividere, li doveva portare a Isola, a Crotone, ai papaniciari e poi i papaniciari s'i dividevanu con gli altri crotonesi che non so nemmeno con chi s'i divideanu”. Una stortura evidente. Impensabile hanno subito pensato i magistrati che Nicolino Grande Aracri non avesse idea dei conti (criminali) di casa propria.
Affari e denari, per Nicolino è tutto un mistero
Allo stesso modo è assolutamente impossibile da credere che Mano di Gomma nulla sappia degli attuali assetti del clan e soprattutto affari del clan. “Quando io ero fuori... stiamo parlando del 2012, all'inizio del 2013, mi hanno arrestato, però fuori era rimasto il Diletto, erano rimasti parecchi, poi è uscito mio fratello Ernesto, diciamo i cosi li curavano loro quando... ero in galera. Poi sono stato al 41, e nto 41 non haj parratu cchiù di affari e non affari” cerca di giustificarsi. Anche della lunga serie di attività - fra bar, ristoranti, pasticcerie e negozi - intestate a terzi nulla sa dire. Ammette solo di detenere il 5% di una quota del villaggio turistico Serenè e che i soldi glieli portava Alfonso Mannolo, capo dell'omonimo clan della frazione San Leonardo, che addirittura, secondo il boss, “se 'nde pijava de cchiù e mia, perché lui aveva messo più soldi”.
E sugli affari al Nord? “Io in Emilia Romagna non ho investito nulla. So invece che Romolo Villirillo ha investito” dice il boss beccato mentre entrava e usciva dallo studio della professionista Roberta Tattini, che poi al telefono si preoccupava di fare la radiocronaca di quegli incontri con i suoi. Nebbia fitta anche su quello che lassù hanno fatto i familiari di Grande Aracri. “Non sapevo nulla non solo dei miei fratelli, ma anche degli altri, perché li gestiva Nicolino Sarcone, era quello che gestiva Emilia Romagna, e Lamanna seguìa diciamo Cremona, Mantova”. Ed era uno che “aveva più onestà di tutti, invece l'altri si futtìvanu i sordi”, tuttavia “non aveva la stoffa... di comandare diciamo, era unu burdellaru sì, però diciamo non era così intelligente a gestire la situazione di business”. Anche di quei 500mila euro in contanti di cui lo sentono chiacchierare intercettato, il boss nulla sa dire se non che sono finiti perchè “l'haj dati all'avvocati”, in particolare “200mila euro c'i dezzi sulu a Staiano”.
Una versione che non sta in piedi
Per i magistrati il giudizio è netto. “Appare, francamente, incredibile, a fronte dei numerosi elementi oggettivi sui diversi affari immobiliari e non solo, siccome censiti nei procedimenti Aemilia e Kyterion”, si legge nella relazione. Allo stesso modo, valutano i pm, è impensabile che Grande Aracri possa “non sapere come arrivino e chi sia materialmente a consegnarli ai componenti della sua famiglia”. Così come assolutamente insensate e fantasiose appaiono le sue ricostruzioni dei tanti omicidi in cui lui o i suoi sono stati coinvolti. Delitti spesso finiti al centro di procedimenti giudiziari arrivati a sentenza definitiva e che il boss ha tentato di trasformare in favole. Aveva promesso di svelare autori e retroscena più di cento fatti di sangue. Ma la sua farsa è stata interrotta prima che finisse di sfogliare il suo personalissimo libro di favole.
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''La farsa di Nicolino Grande Aracri''. Svelato il bluff del boss
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- Alessia Candito