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Al di là di Brusca la politica anti-pentiti non incentiva la collaborazione e sbarra la strada alla ricerca della verità

"I segreti inconfessabili rappresentano l’anima stessa del potere, come diceva Giovanni Falcone" e "alcuni di questi segreti sono certamente a conoscenza di alcuni dei capi di Cosa Nostra condannati all’ergastolo per le stragi". Sono state queste le parole del procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato riportate oggi su un articolo del Fatto Quotidiano.
Potremmo ipotizzare, come ha scritto il magistrato, "che alcuni collaboratori abbiano taciuto segreti di cui sono a conoscenza per autotutelarsi nei confronti di entità ritenute in grado di colpirli nonostante le misure di protezione" ed è possibile ipotizzare anche "che proprio per questo motivo taluni di essi non ritengono di potere collaborare. Un conto è affrontare il pericolo di ritorsioni da parte della mafia miliare, altro è sfidare entità dotate di risorse ben superiori e in grado di raggiungerti ovunque".
Già di per sé questo fattore rappresenterebbe un ostacolo importante per chi vorrebbe collaborare con la giustizia e se si sommano anche le ultime sentenze della CEDU e della Corte Costituzionale, le quali come ha scritto il magistrato "hanno di fatto aperto la possibilità anche per costoro (per i boss ancora detenuti n.d.r) di uscire dal carcere senza collaborare, dimostrando di essersi dissociati dalla mafia e di non essere più pericolosi" le probabilità che un soggetto decida di parlare ai magistrati si riducono drasticamente.
Solo grazie ai collaboratori la magistratura è riuscita a far un po' di luce su ciò che accadde in quegl'anni ma rimangono tuttavia molti punti oscuri.
Come ad esempio "lo strano suicidio in carcere di Antonino Gioè, esecutore della strage di Capaci a conoscenza dei retroscena politici della strategia stragista e uomo di collegamento con soggetti esterni" oppure "lo strano omicidio di Luigi Ilardo, importante capo mafia, poco prima che iniziasse a collaborare e a rivelare, come aveva già anticipato, l’identità di mandanti esterni di stragi e omicidi eccellenti eseguiti dalla mafia" e poi ancora "le strane visite ricevute in carcere dal capo mafia Antonino Giuffrè, quando ancora la sua collaborazione era segretissima, da parte di sconosciuti mai identificati che lo invitavano a tacere e a suicidarsi".
E sempre riguardo alle stragi, "non sappiamo chi erano gli 'infiltrati della polizia' nella strage di Capaci ai quali fece riferimento Franca Castellese, moglie del collaboratore Mario Santo Di Matteo scongiurandolo di non farne menzione ai magistrati per salvare la vita del loro secondo figlio dopo che il primo, il piccolo Giuseppe, era stato rapito. Non sappiamo chi era il soggetto esterno visto da Gaspare Spatuzza al momento del caricamento dell’esplosivo. Non conosciamo l’identità del soggetto esterno che immediatamente dopo l’esplosione si impossessò dell’agenda rossa di Borsellino andando a colpo sicuro e con un tempismo talmente eccezionale da fare ritenere che fosse stato preventivamente messo a conoscenza del luogo e dell’orario esatto dell’esecuzione della strage". L'elenco è molto lungo e si potrebbe continuare ancora per molto.
Tutti questi elementi ci "inducono a ritenere che il 'gioco grande' non si è mai interrotto ed è ancora in pieno svolgimento" e che sono ancora tanti i punti interrogativi presenti su molti episodi inquietanti accaduti negli anni novanta.
"Laddove inizia il segreto impenetrabile inizia il vero potere", ha sottolineato Scarpinato, richiamando diversi punti in merito all'operato del deceduto capo di Cosa Nostra, "Riina non rivelò agli altri capi mandamento palermitani l’identità dei soggetti esterni che gli avevano dato garanzia di coprirgli le spalle, non rivelò il sofisticato piano di destabilizzazione politica lungamente discusso nella seconda metà del 1991 solo all’interno di una ristrettissima élite di capimafia regionali tra i quali Benedetto Santapaola e Giuseppe Madonia" e "non spiegò perché aveva improvvisamente richiamato a Palermo la squadra di killer capitanata da Messina Denaro che si apprestava a uccidere Falcone a Roma dove in quel periodo egli camminava spesso senza scorta, per ucciderlo invece a Palermo eseguendo una strage che richiedeva elevatissime competenze tecniche e presentava un notevole rischio di insuccesso" e poi ancora "non spiegò perché aveva deciso di anticipare l’omicidio di Borsellino, senza attendere i pochissimi giorni che mancavano alla data del 7 agosto 1992 quando il Parlamento avrebbe dovuto decidere se convertire o meno in legge il c. d. decreto Falcone che dopo la strage di Capaci aveva introdotto il 41-bis e il regime dell’ergastolo ostativo".
A fronte di tutte queste decisioni apparentemente illogiche quindi è ipotizzabile che anche Salvatore Riina dipendeva da qualcuno e che tutte le sue mosse erano fatte in concerto con i voleri o i desideri di altre entità esterne.
"Mi assumo io la responsabilità di questa strage. Sarà un bene per tutta Cosa Nostra", disse al tempo Salvatore Riina, ma alcuni capi mandamento come Salvatore Cancemi capirono e in seguito dissero in aula "che Riina doveva rispondere a qualcuno e che altri, come Raffaele Ganci, commentarono che Riina avrebbe portato Cosa Nostra alla rovina".
In conclusione, "le dichiarazioni rese da vari collaboratori hanno tutte un unico comune denominatore: riguardano l’operare dietro le quinte di soggetti esterni durante la campagna stragista" e la politica anziché battersi il petto per la liberazione di Brusca dovrebbe fare attuare delle normative per incentivare la collaborazione e proteggere il collaborante da quegli elementi che potrebbero colpire lui o i suoi affetti.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

Foto © Imagoeconomica

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