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Scrivo e contemporaneamente arrivano al mio cellulare tonnellate di immagini del terrorismo di Stato più eccelso in questo tempo in America Latina. Le immagini che dovrebbero farci vergognare come specie umana, e di fronte ai quali i grandi della Terra, se avessero un minimo di decenza, dovrebbero esprimersi con senso di ripugnanza. Le immagini, alle quali mi riferisco, riguardano la repressione che si sta vivendo in Colombia, contro il popolo. Contro i giovani e meno giovani. Contro donne e bambini. Contro persone del popolo che resistono con le unghie e i denti. E che muoiono o rimangono feriti, solo perché si trovano lì, nelle strade della loro terra nativa, protestando contro il governo di un signore “bastardo” che si erige come governante, mentre invece è un crudele criminale, di nome Iván Duque, presidente della Colombia.
Presidente della criminalità più sfacciata che ancora si vanta e ostenta il suo autoritarismo più condannabile degli ultimi tempi, perché si crede (si sa), protetto nell'impunità che gli offrono i suoi padroni di turno, che risiedono negli Stati Uniti. Perché è così, benché la gran stampa dell'establishment non lo dica con questi termini, perché è una stampa pacata, compiacente e servile all'impero del paese del nord.
Il saldo di questo terrorismo di Stato (che oggi occupa i titolari di quotidiani e telegiornali del mondo, anche se, a dire la verità, non dicono la verità dei fatti, e né tanto meno la ragione o i motivi che ci sono dietro) è il seguente: dal 28 aprile, giornata di sciopero nazionale in Colombia, al 1° maggio scorso, si sono registrati 940 casi di abuso di potere da parte della polizia, 672 detenzioni arbitrarie, 30 casi di uso di armi da parte della polizia, 21 omicidi con intervento della forza pubblica e 4 vittime di violenza sessuale da parte della polizia, secondo l’organizzazione Temblores. Le cifre delle violenze dei giorni a seguire saranno resi noti più avanti. E sicuramente saranno sconvolgenti, terribili.
La lotta popolare in Colombia, dallo scorso 28 aprile, è scoppiata con violenza contro il progetto di riforma tributaria presentato dal presidente Iván Duque. Il progetto mette a confronto radicalmente un modello di paese neoliberale che mantiene i privilegi per l'oligarchia proprietaria terriera e il capitale finanziario, a costo della fame e della sofferenza della classe operaia, del mondo contadino, cioè dei settori più vulnerabili del paese.
In flagrante violazione dei diritti umani, le forze della polizia e dell'esercito della Colombia hanno attuato la repressione (e lo fanno ancora) contro il popolo nelle strade, con indescrivibile accanimento. Di conseguenza, contemporaneamente a quelle repressioni senza uguali, il governo di Duca ha fatto un passo indietro nella riforma tributaria, un gesto che è stato considerato come un trionfo dai settori popolari. Mentre invece, in ambito governativo, quel trionfo popolare è stato coronato da repressioni e ancora repressioni che hanno lasciato un saldo di morti. Esseri umani morti per mano di agenti in uniforme accecati dalla brutalità e dalla mancanza più assoluta di umanità. In Colombia, oggi, si sommano le vittime del terrorismo di Stato tra le file dei contadini, degli attivisti sociali, degli studenti, dei lavoratori. In definitiva, in file di quei cittadini che, consapevolmente, lottano quotidianamente - oggi come ieri - per una Colombia, dove regni la giustizia sociale, la giustizia, la difesa ed il rispetto per i diritti umani, per la vita umana e per la verità.





Questa orrenda situazione ci obbliga, a noi come giornalisti, a non occultare la verità per salvaguardare le nostre comodità professionali e la nostra qualità di vita. Ci obbliga a denunciare le iniquità di un sistema regionale e mondiale corrotto ed insensibile che non ferma la sua nefasta macchina di distruzione a danno dei settori popolari assoggettati, da tempi antichi, dagli autoritarismi di turno e, come in questo caso, dall'impero, cioè dagli Stati Uniti, o per meglio dire dai suoi governanti e prestanomi, disseminato nel mondo e America Latina, e oggi in terre colombiane, dove si sta uccidendo il popolo, così di chiaro.
Per questo motivo, da quelle terre, quel popolo lancia un appello alla coscienza umanitaria e alla solidarietà regionale e mondiale, affinché cessino i morti, le violenze contro manifestanti nelle strade e la pratica di sparizioni forzate; affinché cessino di sparare con i mitra a persone nelle piazze e nelle zone di protesta, come ad esempio nella città di Cali, dove i manifestanti erano attaccati da francotiratori, che puntavano le loro armi contro di loro, falciando vite, in ogni momento, e quel che è peggio alla vista di tutti, e alla vista della comunità internazionale che hanno avuto la mala fortuna (è questo che penseranno) di vedere e conoscere i fatti, grazie a non pochi coraggiosi reporter (giornalisti) presenti sulla scena dei più terribili eccessi degli ultimi tempi, in quel paese sudamericano.
Come potrete leggere in un altro articolo, redatto da Victoria Camboni*, a Montevideo (Uruguay), è stato subito accolto l’appello alla solidarietà, almeno da parte di chi vive il dolore e la sofferenza del popolo colombiano come se fosse proprio, in una manifestazione di fronte all'ambasciata colombiana nel quartiere Pocitos, di Montevideo. Una dimostrazione di resistenza, una delle tante. Ma non è sufficiente. Si necessitano altre. Molte altre.
Nel frattempo, le grida di dolore dei feriti in Colombia si sentono senza tregua, perché i soprusi sono stati di una tale entità che nemmeno la gran stampa mondiale ha potuto ignorarli e, anche se l’ipocrisia non può mancare, i telegiornali hanno passato l’informazione, lì dove di solito non ne parlano.





Da parte nostra, i nostri pensieri e il nostro impegno di uomini e donne della stampa libera rompono schemi e diffondono ogni cosa che accade in quella terra gemella, e la sofferenza che sta vivendo questo paese fratello. Questo paese fratello che, dal secolo scorso, conosce le violenze degli autoritarismi, contro i quali ha resistito, storicamente, in differenti circostanze ed epoche, ed in diverse congiunture della sua storia come paese. Quel paese fratello che sa di lotte sociali e di uomini come Camilo Torres, che sa di guerrillas, tra loro il FLN, e le FARC. Quel paese fratello che conosce le violenze del narcotraffico (nei giorni di Pablo Escobar), le violenze paramilitari e di polizia.
Quel paese fratello che conosce, da tempo antico, le violenze delle oligarchie, dei proprietari terrieri e del capitalismo, sopraffacendo tutto e tutti. Quel paese fratello che sa di uomini del sistema politico corrotto e servile ai suoi padroni yankee. Quel paese che conosce uomini come Álvaro Uribe, che conosce la presenza e l'intervento della CIA, che conosce in carne propria gli effetti del disarmo delle FARC e gli effetti della rinascita dei leader popolari. Quel paese che ha nella sua storia quasi un migliaio di attivisti contadini ed indigeni, e attivisti sociali, assassinati. Quel paese colombiano che sente nelle sue viscere la forza e lo spirito di lotta di Simón Bolívar che oggi si fa presente nelle strade, per poi venire soffocata e calpestata, come un deja vu dei tempi in cui gli invasori spagnoli cercavano di calpestare le resistenze con aria di indipendenza.
L'indipendenza economica ed ideologica la stiamo ancora cercando, perché c’è ancora chi si impegna a alzare barriere, seminare di proiettili la nostra lotta e uccidere, affinché non ci riusciamo.
“La rivoluzione la fanno i popoli” diceva l'emblematico e storico Salvador Allende. Noi, lo parafrasiamo e diciamo che oggi in Colombia, la rivoluzione per le strade la fa il popolo. Non poteva essere altrimenti, affinché non continuino ad aprirsi, ogni anno, le vene dell'America Latina, per dirla come il nostro affettuosamente ricordato (oggi più che mai compianto) Eduardo Galeano.
Il popolo colombiano ci sta dando l'esempio, combattivo e militante, come ha fatto il popolo cileno. Il popolo colombiano che noi non dobbiamo deludere, siamo sinceri.

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