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Cosa ne sarà di Gubbio?

Ci eravamo già occupati della politica di gestione dei rifiuti della Regione Umbria, cuore verde d’Italia, che nei prossimi mesi rischia di trasformarsi in centro di produzione e incenerimento di CSS, “Combustibile Solido Secondario”, materiale ambìto dai colossi del cemento che vorrebbero utilizzarlo nei loro impianti.

La vicenda tocca in particolar modo Gubbio, città nota in tutto il mondo per bellezza, cultura e storia, che rischia di diventare il punto di chiusura del ciclo dei rifiuti del centro Italia e non solo. Questo a seguito della richiesta di bruciare fino a 100mila tonnellate all’anno di rifiuti CSS, richiesta avanzata dalle due multinazionali del cemento, Barbetti S.p.A. e Colacem S.p.A., presenti nella conca eugubina da più di cinquant’anni con i loro due cementifici. Le aziende richiedono alla Regione Umbria di coincenerire nei loro stabilimenti CSS insieme a pet-coke, scarto del petrolio reputato da medici ed esperti come prodotto altamente inquinante, che da rifiuto tossico e nocivo quale è, si è magicamente trasformato in “carburante” grazie a una norma di legge.

Un caso glocal
Torniamo ad occuparci di Gubbio per approfondire un case study locale che assume tutte le tinte di un classico paradosso ‘glocal’ contemporaneo: da un lato due multinazionali che fanno business e chiedono di bruciare rifiuti nei loro impianti, dall’altro una comunità che si oppone alla possibilità che questo accada nei due opifici cittadini nati per produrre cemento e non per essere degli inceneritori. Un caso locale che ha valenza globale. Insomma, la solita partita tra grandi colossi industriali che in questo caso, con il beneplacito della Giunta leghista che guida la Regione, sono pronti ad imporsi sulla volontà dei cittadini e sui pareri dell’amministrazione comunale e della USL locale, tutti contrari all’uso di CSS nelle cementerie. L’idea che accomuna autorità e cittadini è quella di far prevalere il principio di precauzione, per garantire il diritto alla salute e a vivere in un ambiente sano. Una posizione che non si allinea alle preferenze aziendali che minimizzano il parere della comunità definendo tutto questo come “chiacchiere da bar” o preoccupazioni non oggettive.

Ci troviamo di fronte ad un caso locale che ripete gli stessi scenari presenti anche in altre parti d’Italia e del mondo, un caso che descrive il modus operandi di un certo tipo di potere, un certo modo di fare impresa, che invece di ripensare a sé stesso venendo incontro alle richieste del territorio e ai pareri dell’amministrazione comunale e sanitaria, si ostina a portare avanti la propria agenda a testa bassa perché fatica a rinnovarsi, rifiuta scenari di sviluppo realmente innovativi e si mette sulla difensiva di fronte alle legittime richieste della cittadinanza e delle autorità competenti.

Questo è uno scenario che da anni si ripete in diverse città, come Taranto, ad esempio, dove la vicenda ILVA tiene sotto scacco i cittadini e le istituzioni. Quello di Gubbio è quindi un caso dalle tinte “glocal” in cui vediamo il ripetersi delle stesse logiche obsolete del passato, che non riescono a conciliare i concetti di salute, lavoro e rispetto dell’ambiente. È bizzarro che proprio l’ambiente sia spesso protagonista di campagne pubblicitarie ideate dalle multinazionali del settore che, con astute operazioni di marketing, si presentano come paladine del migliore dei mondi possibili, un mondo sostenibile e “green”, mentre le stesse multinazionali nel frattempo continuano a reiterare i vecchi schemi di sviluppo lineare che non è compatibile con le vere esigenze del pianeta, un pianeta che oggi più che mai necessita di sostenibilità concreta e di un’economia circolare che tenga conto della salute dell’uomo e dell’intero ecosistema.

Cosa succede a Gubbio
Risale a circa un anno fa la richiesta avanzata alla Regione Umbria dalle due multinazionali del cemento, Cementerie Aldo Barbetti S.p.A. e Colacem S.p.A., per bruciare CSS nei loro impianti. Se la Regione approverà la richiesta, i forni degli impianti bruceranno fino a 100mila tonnellate di CSS all’anno. È bene ricordare che le fabbriche sorgono a poca distanza l’una dall’altra, nei pressi di case, scuole e centri abitati. Già nel 2011 un report dell’EEA (European Environment Agency) ha definito queste due aziende come il primo e il secondo cementificio in Italia per danno ambientale, e tra le 622 industrie che hanno creato maggior danno all’ambiente in Europa. Oggi le due aziende vorrebbero bruciare CSS nei cementifici in parziale sostituzione del già dannosissimo petcoke.

Giuseppe Mininni del Ministero dell’Ambiente, con un simpatico scioglilingua ha definito il Combustibile Solido Secondario (CSS) come “rifiuto, non rifiuto derivato dai rifiuti”, tentando in questo modo bislacco di tranquillizzare i cittadini di Gubbio attraverso la TV locale, una TV di cui è proprietario uno dei due cementieri.

L’Unione Europea ha già dichiarato ufficialmente che l’ipotesi di incenerire rifiuti è del tutto “recessiva”, pronunciandosi in favore di un’economia circolare basata sul riutilizzo e riciclo di materia. Ma le aziende italiane faticano ad adeguarsi alle buone pratiche comunitarie, specie se si tratta di settori come quello dei rifiuti dove il business per lo smaltimento è garantito.

La possibilità di usare CSS come combustibile è legata ad artifizi normativi previsti dai decreti dell’ex ministro dell’ambiente Corrado Clini (Governo Monti), oggi condannato a 6 anni per corruzione aggravata dalla circostanza della transnazionalità per un finanziamento da 54 milioni di euro concesso quando guidava il suo dicastero. Grazie a Clini, dunque, il CSS formato da plastica, vernici, pellicola, fanghi, pneumatici, rifiuti urbani non compostati, scarti di tessuti animali ed altri materiali disciplinati dal DM del 6 luglio 2012 (pag.59-60), può essere bruciato anche nei cementifici. In questo modo, l’ex ministro ha dato la possibilità ai cementifici (impianti insalubri di prima classe) di non essere sottoposti a limiti di emissioni in atmosfera tanto stringenti quanto lo sono per gli inceneritori, che al contrario dei cementifici nascono appositamente per bruciare immondizia. Un controsenso che è realtà.

Oltre ai limiti di legge legati alle emissioni di sostanze come diossine, furani, particolato, altamente pericolose per la salute umana ed ambientale, sostanze che i cementifici possono immettere nell’aria in misura maggiore rispetto agli inceneritori, si dovrebbero considerare primariamente i limiti della “normale tollerabilità” a certi inquinanti. Come previsto dall’art. 844 c.c. e da numerose sentenze, le immissioni inquinanti sono da considerarsi illecite quando, al di là delle prescrizioni normative, pregiudicano le condotte di vita della popolazione.

I rischi per la salute evidenziati
I rischi per gli inquinanti immessi da impianti insalubri di prima classe come i cementifici sono numerosi ed hanno implicazioni nei bambini ma anche negli adulti passando anche per i danni eventuali che è possibile riscontrare fin dal momento della gestazione”. Questo è quanto sostiene il pediatra Giovanni Ghirga, membro del comitato scientifico di ISDE Italia e già Direttore dell’unità operativa complessa di pediatria e neonatologia del San Paolo di Civitavecchia, che ha spiegato come la vicinanza alle sedi di fonti inquinanti aumenti il rischio dei disturbi del neurosviluppo nei bambini. Insieme a lui moltissimi medici ed esperti del settore pongono l’accento sulle polveri ultrafini immesse dai cementifici, polveri che hanno un diametro simile ai virus e che non possono essere filtrate in nessun modo. Polveri tossiche per le donne in gravidanza, per il feto e per i bambini, tra i principali esposti al rischio in questa vicenda. “Sappiamo che il bambino, nel primo periodo della vita, cerca un adattamento all’ambiente circostante e stimoli nocivi di tipo chimico-tossico possono interferire con lo sviluppo degli organi e dei tessuti avendo come risultato una patologia che va da lieve a grave, a gravissima” continua il Dottor Ghirga. Gli stessi fattori di rischio sono riscontrabili anche negli adulti.

Seguendo la scia della tutela della salute e dell’ambiente, anche la USL Umbria 1 di cui Gubbio fa parte, si è espressa contrariamente all’incenerimento dei rifiuti nelle cementerie inviando in Regione il suo parere con cui richiede una “necessaria ed opportuna valutazione di impatto ambientale che tenga conto anche del rischio di un effetto inquinante combinato e sinergico dei due insediamenti all’interno del medesimo territorio, ricercando ogni possibile soluzione in tal senso”. Così scrive l’Unità Sanitaria Locale, che definisce “carenti” le richieste fornite dalle multinazionali del cemento di Gubbio. Richieste che per la USL fanno riferimento esclusivamente all’impianto produttivo delle aziende e non tengono conto di “ciò che concerne i possibili effetti, anche a lungo termine, sulla salute delle varie fasce di popolazione in termini di rischio incrementale (degenerativo anche neoplastico o mortalità) per ognuno degli inquinanti prevedibili”, come si legge nella lettera inviata dalla USL alla Regione.

Dello stesso parere è anche l’amministrazione comunale di Gubbio che, nelle vesti del Sindaco Filippo Stirati, si è espressa contrariamente all’uso del CSS nei cementifici ed ha istituito il cosiddetto “ecodistretto”, un modello di analisi legata a dati ed indagini sulle matrici ambientali e sulle dinamiche epidemiologiche al fine di accertare lo stato di salute del territorio e la qualità della vita in relazione a diversi fattori di rischio ambientale, coinvolgendo cittadini, aziende e istituzioni ad un tavolo di lavoro di partecipazione democratica.

I controlli eseguiti fino ad ora a Gubbio
I due cementifici di Gubbio, dall’inizio del loro insediamento fino ad oggi, non sono mai stati sottoposti ad alcuna valutazione di impatto sanitario (VIS) e nemmeno a valutazioni di impatto ambientale (VIA) e d’incidenza ambientale (VincA). Al momento attuale, dopo più di 50 anni dalla nascita dei due cementifici, mancano analisi approfondite sulle matrici ambientali della città, nonostante la legge classifichi queste industrie come attività insalubri di prima classe. Sul territorio di Gubbio pesa anche l’assenza di una indagine epidemiologica, così come la mancata riattivazione del Registro Tumori Umbro di Popolazione, da parte della Giunta leghista di Donatella Tesei. Questo rende difficile capire effettivamente la reale situazione sanitaria dell’area, caratterizzata dal fatto di essere una conca dove, per conformazione geografica, è favorito il ristagno degli inquinanti prodotti da impianti che per legge non dovrebbero sorgere vicino a case e centri abitati, come previsto dal Testo unico delle leggi sanitarie - Regio Decreto 27 luglio 1934, n. 1265, capo III, art 216 (aggiornamento all'atto pubblicato il 29/04/2020, Integrato dal d.m. 5/9/1994).

Gli unici dati relativi alla qualità dell’aria di Gubbio vengono da ARPA, agenzia regionale per la protezione ambientale, che riceve ogni anno circa 100mila euro dalle due cementerie come contributi non vincolati. Proprio su questi contributi indaga la Guardia di Finanza a seguito di un’istanza di accertamento presentata dall’Avvocato del WWF Valeria Passeri. ARPA sostiene che i problemi d’inquinamento a Gubbio dipendano dai caminetti delle stufe delle case dei privati cittadini, dalle polveri provenienti dall’Etna, dalle sabbie sahariane e del Mar Caspio trasportate dai venti. Queste sono le dichiarazioni ufficiali. Un parere che sembra cozzare con quello dell’EEA (European Environment Agency) che annovera i cementifici di Gubbio tra quelli che hanno creato maggior danno ambientale in Italia e in Europa.

Le preoccupazioni dei cittadini e delle autorità comunali e sanitarie, che chiedono valutazioni di impatto ambientale e sanitario prima di usare CSS nelle industrie, sono legate anche ai dati allarmanti relativi all’elevato tasso di incidenza dei tumori in Umbria. Stando agli ultimi dati del 2019 l’Umbria è la seconda regione d’Italia a detenere il tasso più elevato di incidenza di tumore negli uomini (688 casi per 100.000 abitanti), dopo il Friuli Venezia Giulia che è al primo posto.

Al parere dell’autorità sanitaria locale si somma anche lo studio fatto in America da Enviromental Healt, una delle riviste più autorevoli del mondo scientifico, che nel 2013 ha condotto uno studio sul rapporto tra ambiente ed esseri umani dimostrando una correlazione diretta tra chi vive in un raggio di 3 km dai cementifici che bruciano rifiuti e il rischio di contrarre il Linfoma non-Hodgkin.

Lo stesso gruppo di ricerca ha dimostrato anche la presenza di quantità importanti di diossine nella polvere di casa degli appartamenti prossimi a cementifici/inceneritori. Questo sostiene anche Agostino Di Ciaula dell’Associazione medici per l’ambiente-ISDE Italia, che ritiene la correlazione con i linfomi non-Hodgkin “solo la punta di un iceberg”. Di Ciaula invita ad indagare anche su tutta un’altra serie di patologie dovute ad altri inquinanti e direttamente correlate a problemi respiratori, cardiocircolatori e neuro-motori.

Nonostante questo scenario preoccupante, la governatrice umbra Donatella Tesei, insieme alla sua Giunta, richiede 50 milioni del Recovery Fund per costruire 3 impianti di produzione di CSS pronto per essere bruciato nei cementifici di Gubbio e probabilmente nel cementificio di Spoleto venduto da Cemitaly S.p.A. a Colacem S.p.A. nel 2019.

Il nuovo corso della transizione ecologica
Recentemente il ministro per la transizione ecologica Cingolani ha definito i cementifici tra le aziende più inquinanti presenti sul nostro territorio. Urge quindi la possibilità di ripensare un nuovo modello di sviluppo che non baratti più salute e ambiente in cambio di profitto e lavoro.

Ad oggi sono numerosi i carburanti alternativi che potrebbero essere utilizzati per il funzionamento di questi di due impianti, ad esempio l’idrogeno di cui si parla anche nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza presentato in questi giorni dal Governo che inquadra i cementifici nella categoria delle industrie hard-to-abate. Per questi impianti “l’idrogeno può assumere un ruolo rilevante in prospettiva di progressiva decarbonizzazione”, si legge nel PNRR, e sono previsti anche incentivi fiscali per le aziende che attuano questo tipo di riconversione ecologica. Nello stesso Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza non si parla in nessun punto di incenerimento dei rifiuti, ma anzi si accentua la necessità di una politica volta al riciclo massimo di materia, in accordo con quanto sostenuto dall’Unione Europea e dai princìpi dell’economia circolare.

Da più parti d’Italia i cittadini chiedono alle aziende un altro tipo di politica nella gestione dei rifiuti, finalizzata al quasi totale riciclo e riuso.

La protesta dei comitati cittadini di Gubbio si unisce a quella di altri gruppi nati nei luoghi dove spesso operano le medesime multinazionali, come a Galatina in Salento dove è presente un cementificio di Colacem S.p.A.per il quale negli anni sono state chieste indagini e valutazioni di impatto ambientale; si tratta di una delle aziende alla quale (secondo l’Agenzia Europea per l’Ambiente) sono state attribuite 584mila tonnellate annue di CO2 e 2420 tonnellate annue di NOX, per un danno ambientale e sanitario calcolato tra i 37 e i 67 milioni di euro, come riportano anche i comitati cittadini.

Non solo rischi per salute e ambiente. L’ombra delle mafie
I cittadini sono anche preoccupati per le possibili infiltrazioni mafiose nel settore della produzione di CSS. Negli anni passati, Gubbio ha già visto la presenza di aziende legate alla criminalità organizzata nella gestione dei rifiuti ed è stata scenario dell’uccisione dell’ex collaboratore di giustizia Salvatore Conte, appartenente al clan dei Casalesi, il cui cadavere fu trovato in un bosco nei dintorni della città e il cui nome era collegato alle vicende dell’azienda Sirio Ecologica, implicata nello smaltimento illegale di rifiuti. Ci eravamo occupati della vicenda nel precedente articolo.

È di poche settimane fa la notizia dell’arresto in flagranza di reato di un funzionario regionale accusato di corruzione per essere stato sorpreso durante uno scambio di mazzette con un’imprenditrice umbra, per facilitazioni rispetto alle autorizzazioni ambientali nel settore delle cave. Lo stesso funzionario era già sotto indagine della procura di Ancona, sempre per facilitazione di autorizzazioni ambientali e per gestione illecita di rifiuti speciali da demolizione, organici e terrosi. Il dipendente regionale Federico Bazzurro lavorava nel Servizio Sostenibilità Ambientale, Valutazioni e Autorizzazioni Ambientali nella sezione valutazione impatto ambientale, proprio lo stesso ufficio che dovrà pronunciarsi anche sull’autorizzazione all’incenerimento di CSS nelle cementerie di Gubbio.

In numerose inchieste internazionali, alcune delle quali seguite dai colleghi del Fatto Quotidiano il commercio dei rifiuti-carburanti, come vengono definiti i CSS, risulta essere “un settore infiltrato dalla criminalità, anche organizzata. Spesso ai cementifici arrivano rifiuti che non dovrebbero arrivare. E anche quando i carichi in ingresso risultano del tutto regolari, i cementifici sono spesso dei giganteschi mostri costruiti vicino a centri abitati con relative ripercussioni sulla salute dei cittadini”.

Da anni è nato un vero e proprio business legato all’export di CSS prodotto da aziende italiane come la Delca Energy, nata dalle ceneri dell’azienda Delca, che lavora nel settore che si trova al centro di inchieste da parte della magistratura.

Lo scenario che potrebbe aprirsi nel cuore verde d’Italia, già da anni caratterizzato da infiltrazioni della criminalità organizzata che dal sud cerca di fare affari al centro, è perciò davvero preoccupante, soprattutto se teniamo conto che molti boss di ‘Ndrangheta, Camorra e Cosa Nostra hanno ricostruito le loro carriere criminali a partire dalla permanenza nelle carceri della regione.

Altri casi che riguardano la presenza della criminalità organizzata nel settore dei rifiuti hanno coinvolto la discarica “Le Crete” di Orvieto su cui aveva messo le mani la Camorra all’inizio del 2000. Sempre ad Orvieto sono state condotte indagini della Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze che ha indagato recentemente sulle infiltrazioni della ‘Ndrangheta calabrese nella gestione dei rifiuti da parte di aziende e colletti bianchi.

Il rischio di infiltrazioni criminali nel settore dei rifiuti in Umbria esiste. Questo è stato affermato qualche giorno fa anche dal Procuratore Capo della Procura di Perugia, Raffaele Cantone, a latere dell’audizione da parte della Commissione d’Inchiesta Analisi e Studi su criminalità organizzata ed infiltrazioni mafiose della regione.

Il rischio -ha spiegato Cantone- è che nella fase post pandemica questi segnali possano diventare più significativi. Sul tema dei rifiuti esiste un maggiore rischio di infiltrazione. C’è un tessuto del territorio che consente una serie di attività illecite in questo settore. Si tratta di un ambito nel quale i rischi che qualcuno possa approfittarne dall’esterno sono molto significativi”. Così ha concluso il Procuratore Capo di Perugia.

Il destino di Gubbio
La vicenda di Gubbio si prospetta come uno dei tanti casi locali destinato a far discutere nuovamente qualora si procederà ad incenerire rifiuti nelle due cementerie della città e a prediligere una politica regionale che al riciclo e riuso della materia preveda invece l’incenerimento e la produzione di CSS, disattendendo così la linea del Green new deal europeo che richiede un futuro più sostenibile e un’economia meno impattante sui territori.

È necessario che le grandi multinazionali, che per anni hanno contribuito ad emissioni inquinanti e rischiose per la salute e per il territorio, ripensino ai loro sistemi produttivi tenendo conto delle istanze dell’ambiente e dei cittadini che le ospitano.

È ora che ambiente, salute e lavoro non vengano più visti secondo una logica oppositiva e che i beni comuni come il suolo, l’acqua, la salute e l’aria vengano tutelati e liberati dagli interessi dei soli privati che spesso vogliono sottrarre risorse collettive a scopo di profitto: risorse e beni che non potranno più essere in alcun modo risarciti alle generazioni future.

Ci auguriamo che Gubbio possa diventare un caso-simbolo tutto italiano, che rappresenti un’imprenditoria capace di ripensare sé stessa rinnovandosi in un’ottica di sostenibilità invece di continuare a perseguire scelte obsolete e in controtendenza con il futuro del pianeta.

È anche auspicabile che le grandi multinazionali del cemento prendano in seria considerazione l’appello lanciato dai vescovi italiani riuniti pochi giorni fa ad Acerra, i quali hanno affermato a gran voce: “Salute, ambiente e lavoro non sono in antitesi. L’idea che siano alternativi l’uno all’altro è un ricatto inaccettabile”. “Da troppo tempo assistiamo a questo attacco alla vita, alla dignità, alla casa comune”, hanno ribadito i vescovi italiani. “La custodia, o la mancata custodia, della casa comune – in quanto siamo tutti parte dell’umanità – incide direttamente sulla nostra salute. Gli effetti ambientali prodotti dalle nostre scelte hanno una incidenza diretta sulla salute fisica, psichica e sociale di tutti, e di ciò l’umanità è responsabile, prima che vittima”, ha chiosato Bassetti.

Speriamo che questo case study dai tratti glocal serva per far luce su una vicenda ripetibile su tutto il territorio nazionale, che ha come vittime gli esposti involontari e l’ambiente. Ci auguriamo che gli imprenditori locali abbandonino i loro progetti di incenerimento dei rifiuti e si dirigano risolutamente verso uno sviluppo più sostenibile, come ribadito dal PNRR, uno sviluppo che sappia conciliare sapere, salute, lungimiranza e garanzie per le future generazioni, verso una direzione realmente green che tuteli le persone e i territori.

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