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Pochi giorni fa abbiamo celebrato la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.
Oltre mille nomi di vittime innocenti che hanno lasciato dietro di loro il dolore incancellabile di altrettante famiglie - ma anzi molte dipiù - ai cui affetti sono state strappate per sempre.
Qualcuno ha ricordato che l’ergastolo inflitto ai responsabili di tali crimini costituisce un contrappeso, peraltro insufficiente, al terribile ergastolo affettivo e senza benefici, subito dai familiari delle vittime.
Eppure - a distanza di solo pochi giorni - sembra che queste considerazioni appartengano ad un ‘altra epoca, con il ritorno in primo piano dell’idea (accettata anche da chi è chiamato a rappresentare in giudizio le Istituzioni) che i boss mafiosi condannati all’ergastolo - ossia i responsabili degli efferati crimini di cui si è detto prima - possano essere considerati alla stregua di tutti gli altri condannati ai fini della concessione di taluni benefici carcerari, anche senza che abbiano manifestato scelte irrevocabili di collaborazione con la giustizia.
Non è questa la sede per affrontare i profili tecnico-giuridici della specifica questione che, sul punto, è attualmente all’esame della Corte Costituzionale, ma basta ricordare che la Corte si è più volte pronunziata sul trattamento carcerario più severo destinato ai boss mafiosi, riconoscendone la piena legittimità.
Così come è bene ricordare che, dall’esperienza investigativa maturata negli anni, è emerso - senza alcuna ombra di dubbio - come la privazione definitiva di ogni contatto tra i capi mafia detenuti ed i loro ambienti di provenienza abbia storicamente evitato la consumazione di molti ulteriori gravissimi reati e come altri ancora ne siano stati scongiurati per effetto delle informazioni acquisite attraverso le scelte di collaborazione con la giustizia, che il trattamento carcerario in vigore tuttora ha sicuramente incentivato.
Ma l’aspetto più allarmante di tali discussioni è certamente provocato dal segnale di sottovalutazione del fenomeno mafioso, che ne viene alla luce.
Sembra che si voglia dimenticare la secolare e riconosciuta capacità della mafia di adattarsi ad ogni contesto e dunque di porre in atto quelle strategie di sommersione e travestimento camaleontico che, nei momenti di maggiore impegno repressivo da parte dello Stato, le hanno sempre consentito di offrire un’immagine di sé inoffensiva, se non rassicurante, idonea però a nasconderne la persistente pericolosità.
Ed allora gli utopistici propositi di ”risocializzazione” dei condannati per mafia, magari accompagnati da generiche (e indolori) dichiarazioni di dissociazione – ma senza che a queste abbiano fatto seguito concrete e dimostrate manifestazioni di collaborazione – finirebbero facilmente per rappresentare un agevole percorso per ricucire il tessuto associativo che si era interrotto.
Significativa conferma di ciò viene data dalle risultanze investigative sui comportamenti adottati dagli esponenti mafiosi di elevato spessore, dopo il loro ritorno in libertà, che li hanno in un modo o nell’altro sempre riportati verso gli stessi ruoli precedentemente ricoperti nell’associazione criminosa.
E non bisogna mai dimenticare, in conclusione, che l’attenuazione del trattamento carcerario ha sempre rappresentato il principale obiettivo di tutte le strategie di condizionamento e pressione adottate dalla mafia verso le Istituzioni dello Stato!

Foto © Imagoeconomica

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