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Il 7 marzo la legge per l'uso sociale dei beni confiscati compirà 25 anni

“Dalla sopravvivenza di quelle aziende dipende la sopravvivenza della cultura antimafia”

“Facendo fallire le regole si fa apparire la morte più attraente delle regole. Questo è il problema. Per decidere sui beni ci vuole passione. Chi non ci crede deve starne alla larga o rispondere con una responsabilità qualificata per le inerzie che riguardano la loro amministrazione. Chi ci mette mano deve sapere che dalla sopravvivenza di quelle aziende dipende l’immagine e la sopravvivenza della cultura antimafia”. A dirlo, in un articolo sul magazine Vita.it, è il magistrato e componente del Csm Sebastiano Ardita, da sempre in prima linea nel contrasto alle mafie e alla cultura mafiosa. Il prossimo 7 marzo la legge sui beni confiscati alle mafie compirà 25 anni. Secondo Ardita fare un resoconto di questo quarto di secolo di beni confiscati “equivale a ragionare sulle cause di un fallimento clamoroso e pericoloso. Se è vero che solo il 5 per cento delle imprese definitivamente confiscate in Sicilia alla mafia (39 su 780) risultano attive e le altre non lo sono più, il segnale che giunge all’esterno è devastante”, commenta il magistrato catanese. “I detrattori della legislazione antimafia sostengono che essa mette in ginocchio l’economia; le famiglie mafiose diffondono nella subcultura su cui hanno presa l’idea che lo Stato fa perdere posti di lavoro. Non è facile - scrive Sebastiano Ardita - spiegare il rapporto tra economia e mafia con riguardo all’interesse immediato dei cittadini. Se un supermercato è gestito dalla mafia, la ricchezza che produce è solo apparente ed è legata al patrimonio di capitale e lavoro che opera secondo lo schema generale: posti di lavoro e acquisti dei cittadini che producono ricchezza. In realtà esiste anche un sommerso invisibile”. “La mafia ricicla denaro, provento di altre attività illecite, spesso lesive della libertà di mercato (come le estorsioni ai danni di aziende che partecipano ad appalti)”, aggiunge il consigliere togato del Csm. “Ed utilizza il denaro prodotto per investire in nuovi delitti. Inoltre può operare con sleale concorrenza mettendo fuori dal mercato altre aziende e provocando la perdita di altri posti di lavoro. Ma tutto ciò rimane sommerso. Se mai potessimo quantificare i danni, non solo sociali, ma anche economici che produce il supermercato (danni provenienti dai reati che lo finanziano, o dai reati in cui reinveste; costi per attività di polizia, processi e indagini; fallimenti di aziende sane per concorrenza sleale, con perdita di posti di lavoro) certamente ci accorgeremmo che sono superiori alla ricchezza apparente in termini di prodotto lordo e di posti di lavoro che produce”. “Ma anche se è quasi sempre così - sottolinea Ardita - tutto questo è difficile da spiegare e dunque far morire una azienda confiscata è sempre un danno di immagine enorme per il contrasto alla mafia. Un danno di cui la ‘burocrazia statale’ e la politica non hanno ancora capito la gravità. Perché il messaggio secondo cui il contrasto alla mafia impoverisce - anche se basato su di una apparenza - è devastante e pro-duce consenso sociale verso la mafia. Un consenso che è mille volte più forte in tempi in cui la mafia non spara”. Il vero problema, spiega Sebastiano Ardita nel suo articolo, “è che la gestione delle aziende confiscate dovrebbe presupporre un distillato di contenuti ideali e propositivi, tanto quanto il contrasto militare a Cosa Nostra. Essa rappresenta la dimensione propositiva, la pars costruens che prova l’effetto della legge sul benessere sociale, in contrapposizione alle iniquità presenti nella giungla dove opera la subcultura mafiosa. È questo il terreno di elezione della diffusione di una cultura antimafia”.
“Se non si dimostra che le regole dello Stato producono benessere - continua Ardita - la battaglia è perduta, perché è il benessere sociale il fondamento stesso dello Stato. Punto. Ecco perché chi interviene nelle scelte sui beni confiscati deve essere motivatissimo. Le associazioni in questi anni hanno fatto da propulsore culturale, denunciando quella mentalità burocratica dello Stato nella loro gestione che rischia di dare un colpo mortale alla lotta alla mafia”. “Ma non si tratta solo della mancanza di coordinamento”, precisa il componente del Csm. “Una scissione indicibile esiste tra chi investiga, lotta e confisca e chi dopo l’ablazione non è in grado di pensare un modo per blindare il passaggio di mano dei beni: dalla cultura della morte a quella delle regole. Facendo fallire le regole si fa apparire la morte più attraente delle regole". “Lo Stato non può rimanere a guardare”, sentenzia Ardita. “Lo Stato deve assicurare le condizioni perché quelle aziende possano stare nel mercato. Non deve privilegiarle sul piano economico, deve garantire loro di non essere boicottate, di potere operare in concorrenza. Non è un compito facile; è difficile come proteggere un collaboratore di giustizia, come affrontare un dibattimento”, commenta. “Per questo si deve lottare. E non può combattere questa battaglia un burocrate che non ci crede. È tutto qui il problema”.

Foto © Imagoeconomica

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