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Con l'operazione "Metameria" 28 gli arresti

Un boss detenuto per anni, che approfitta dei domiciliari ottenuti a causa di una grave malattia per rimettere in piedi il suo clan con la violenza di sempre. Un clan storico che, nonostante arresti e processi che ne hanno decimato i ranghi, sforna reggenti e recluta imprenditori. Dalla periferia nord alla periferia sud di Reggio Calabria, è una fotografia della ‘Ndrangheta che si riproduce, si replica e infetta il terreno in cui radica, anche grazie ai tanti più o meno insospettabili che si prestano o tacciono, quella scattata dall’inchiesta “Metameria”, firmata dai pm Walter Ignazzitto e Stefano Musolino della procura antimafia reggina, guidata da Giovanni Bombardieri.

Ventotto misure cautelari - 25 in carcere, 3 ai domiciliari – due filoni di indagine, uno sulla ricostruzione del clan Barreca a Pellaro, nell’hinterland sud di Reggio Calabria, uno sugli interessi imprenditoriali dei Condello a Gallico nella zona nord della città, entrambi sviluppati dai carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria, sequestri per oltre sei milioni di euro.

Su richiesta della procura e per ordine dei due gip che hanno valutato le due richieste “gemelle”, in manette sono finiti storici boss come Filippo Barreca, storico capolocale di Pellaro tornato a imporre il proprio peso criminale sul territorio e a coordinare, ma anche i reggenti del clan Condello, Giandomenico e Demetrio, nascosti dietro società e lavori di facciata, e i loro imprenditori di fiducia, Nicola Pizzimenti, Francesco Giustra, Santo e Luigi Germanò. Volti apparentemente diversi ma assolutamente complementari di un’organizzazione criminale complessa, stratificata, sempre e comunque in grado di asfissiare il territorio.

A Pellaro, quando il boss Filippo Barreca è tornato a casa, era come se nulla fosse cambiato. Nonostante gli anni di detenzione, il suo peso criminale non era venuto meno. “L'abitazione dì contrada Zambaldo, che avrebbe dovuto costituire il luogo di ricovero di un anziano ergastolano malato, diventava in realtà – si legge nelle carte - la base logistica di una pericolosa cosca di 'ndrangheta, rivitalizzata dal ritorno del suo carismatico capo”. Il boss che anche in ospedale, dove da detenuto era stato ricoverato, ha continuato a chiamare a rapporto i suoi uomini per essere informato sugli assetti e gli affari criminali in quella che non ha mai smesso di considerare la sua zona. E che una volta uscito, ne ha ripreso possesso con “bramosia delinquenziale che il tempo sembra aver amplificato”.

I metodi? La violenza di sempre e “il pizzo come regola generalizzata per imprenditori e commercianti del “suo” comprensorio, facendo sprofondare Pellaro in quella cappa di asfissiante illegalità che già negli anni 80 egli stesso aveva cagionato”. Per lui quella zona era feudo esclusivo. Lo mostra con pugno di ferro agli imprenditori che finiscono nel mirino. Soprattutto quelli che osano ribellarsi, o addirittura – inconcepibile per lui – denunciare. “Se non gli facciamo qualcosa a ‘sta gente, non se ne aggiustano cose ragazzi” predicava. Quasi indignato, i carabinieri lo sentono esclamare “La devono finire le persone, che qua per ora si sono presi di confidenza”. E contro quelle che considerava quasi offensive ribellioni, Barreca aveva un’unica ricetta “di giorno un furgone di quelli… uno passa con un poco di benzina, gliela butta dentro e se ne va. E si brucia mezzi”.

Persino un operatore ecologico sperimenta la violenza del boss, che ad un amico racconta fiero di averlo preso a bastonate per poi intimargli “tu qua i rifiuti li devi prendere senza dire niente. Anzi… posi il furgone, torni con la tua macchina e raccogli i rifiuti. E se trovi delle pietre raccogli pure le pietre”. La sua colpa? Essersi rifiutato di portare via l’immondizia non correttamente differenziata.

Ma che a Pellaro nulla si possa muovere senza pagare dazio e senza che lui dia il consenso, Barreca lo fa riferire anche ad una ditta “amica” dei clan della Piana che in zona vorrebbe lavorare senza pagare. “Finiamola, se non ci portano i soldi neanche un chiodo mettono qua. Se non ci portano i soldi che se lo tolgano dalla testa” dice senza mezzi termini. E non lo turba più di tanto che la ditta sia “protetta” da altri clan. “Si, si certo, che vengano quelli della Piana che vengano, che vengano da tutte le parti per venire a bere un caffè” afferma. Per gli inquirenti “fermo il rispetto nutrito per i "colleghi" di quella zona, Barreca rivendicava il suo diritto a non fare passi indietro nel suo territorio”.

Per il giudice, il vecchio boss è il capo indiscusso, “stratega e tessitore delle fila del programma delittuoso fatto principalmente di attività estorsive a tappeto”. E il suo ruolo è riconosciuto non solo dagli affiliati “che a costui si rapportano tributandogli rispetto e manifestando cieca obbedienza ai suoi ordini ed alle sue direttive, ma anche dai suoi pari all’interno delle cosche più potenti del mandamento 'ndranghetistico di centro”. Non a caso, quando appena rientrato sul territorio mette gli occhi sul supermercato Conad di Pellaro, è il boss Carmine De Stefano ad intervenire perché i Latella-Ficara si facciano da parte, “restituendo” a Barreca quel che per territorio gli competeva.

E tutti hanno “scientemente alimentato il perverso circuito mafioso che da decenni funesta il territorio reggino, soffocato dal clima di omertà e reticenza e limitato nella crescita economica per effetto del sistematico ricorso alla pratica del racket. Si tratta, in sostanza, dei massimi responsabili di quella cappa di asfissiante illegalità che da decenni incombe sulla città di Reggio Calabria e sul suo hinterland, determinandone l'inesorabile decadimento culturale, sociale ed economico”.

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