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La Corte di Appello di Roma assolve l’imputata perché il fatto non sussiste

Assolta. Monica Mileti non c’entra nulla con la morte di Attilio Manca. La sentenza odierna della III sezione penale della Corte di Appello di Roma, presieduta da Gianfranco Garofalo, rimescola oggettivamente le carte in tavola. In aula era presente la parlamentare Giulia Sarti, tra i firmatari della relazione di minoranza della Commissione antimafia sul caso Manca. In attesa di leggere le motivazioni va evidenziato che la decisione della Corte capovolge diametralmente il verdetto di primo grado di Viterbo: un processo-farsa conclusosi con la condanna della Mileti a 5 anni e 4 mesi per aver ceduto le dosi di eroina che hanno ucciso il dottor Manca. Questa assoluzione costringe quindi a fare i conti con la domanda principale che ruota attorno a questo mistero: se non arriva da Monica Mileti, chi ha portato 17 anni fa l’eroina nell’appartamento di Attilio, e chi ha provveduto a iniettare due dosi nel braccio “sbagliato” visto che Attilio era un mancino puro? Chi sono questi uomini ombra che entrano, eseguono la messa in scena e poi escono indisturbati? Certo è che l’istanza della famiglia del giovane urologo inviata via Pec al dott. Garofalo lo scorso 29 dicembre, acquisisce ora un’ulteriore importanza alla luce dell’assoluzione della sessantenne romana. “E’ stata sconfessata l’ipotesi della Procura di Viterbo - ha dichiarato all’AdnKronos Fabio Repici che, assieme ad Antonio Ingroia, difende la famiglia Manca - quindi non ci sono elementi per dire che c’è stata cessione di droga nei confronti di Manca”. Dal canto suo il legale della Mileti, Cesare Placanica, ha affermato con convinzione: “La mia assistita era rimasta schiacciata in una storia in cui non c’entrava niente”. Ed è esattamente attorno alla sua figura che ruotano tanti interrogativi legati al decesso di Attilio. “La procura di Viterbo aveva dichiarato lo scorso 6 gennaio all’AGI lo stesso Placanica mi aveva detto ‘ma falla confessare perché noi lo qualifichiamo quinto comma ed il quinto comma si prescrive a breve’. Sennonché io l’ho spiegato alla mia assistita e lei mi ha detto ‘ma io posso confessare una cosa che non ho fatto?’”. Intervistato da Paolo Borrometi l’avv. Placanica era stato alquanto diretto specificando di aver spiegato a Monica Mileti che “in teoria la può confessare, perché ottiene un’utilità”. Poi però si era posto una domanda: “Ma si può portare una a confessare una cosa che non ha fatto? Questa (la Mileti, ndr) ha pagato di non avere detto una fesseria che metteva una pietra tombale sopra a questa storia, perché nell’attimo in cui lei confessava, la storia finiva”. Immediata era stata la reazione della madre di Attilio, Angelina Manca: “Io l’ho sempre detto – aveva commentato a caldo – ed è davvero doloroso, a quasi diciassette anni dall’assassinio di mio figlio, leggere le parole del difensore di Monica Mileti, che conferma definitivamente che la Procura di Viterbo e il pm Petroselli in questi anni hanno operato solo per occultare la verità e mettere una pietra tombale sull’omicidio di Attilio”. “Oggi – aveva aggiunto – nessuno ha più alibi: ci sono stati organismi istituzionali che hanno voluto nascondere i fatti e per questo hanno fatto la guerra contro di noi, che non volevamo permettere che la memoria di Attilio fosse infangata in modo così indecente. Mi auguro che la Corte di appello di Roma domani si renda conto che il processo a Monica Mileti celebrato a Viterbo è stato molto più che scandaloso e decida finalmente di sentire i pentiti che hanno parlato dell’omicidio di Attilio”.


FOTOGALLERY (visione sconsigliata ad un pubblico sensibile)

MANCA-FOTOCHOC


Nella missiva indirizzata al Presidente Garofalo i genitori del giovane urologo – vergognosamente estromessi quali parti civili al processo di Viterbo – avevano chiesto di chiamare a testimoniare i collaboratori di giustizia del calibro di Carmelo D'Amico, Giuseppe Setola, Giuseppe Campo, Stefano Lo Verso, Antonino Lo Giudice, così come il pentito milazzese Biagio Grasso. Di fatto il leit motiv riscontrato nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia citati ricalcava e ricalca un concetto deflagrante e cioè che Attilio Manca “è stato ucciso, da mafiosi e da appartenenti ai servizi segreti”. Seguendo le indicazioni dei pentiti l’ipotesi più plausibile rimane quindi quella che il prestigioso urologo – tra i primi in Italia a operare al tumore alla prostata per via laparoscopica – possa essere stato chiamato ad assistere l’ex capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano (prima, dopo o durante l’intervento per il tumore alla prostata che quest’ultimo ha subito in Francia nel 2003), per poi essere ucciso in quanto testimone scomodo della rete di protezione istituzionale che ha garantito la quarantennale latitanza del boss di Cosa Nostra.

“Quelle dichiarazioni (dei cinque collaboratori di giustizia, ndr) – aveva rimarcato la madre di Attilio Manca nella lettera – sono state raccolte da uffici giudiziari di Messina, Palermo, Caltanissetta e Roma. Le conoscevano a Viterbo il Pubblico ministero e la difesa degli imputati. Eppure nel processo a carico di Monica Mileti nessuno ha voluto che quei collaboratori di giustizia fossero sentiti”. “Non riusciamo a comprendere – si leggeva ancora – per quali motivi l'imputata abbia rinunciato a prove che erano a lei senz'altro utili”. Per Gino e Angelina “l'unica risposta” plausibile è quella che la stessa Mileti ci aveva dato qualche anno fa nell’unica occasione in cui aveva risposto al telefono. “Io Attilio l’ho amato - aveva confidato - ma ora basta, mi lasci vivere… mi ha creato così tanti problemi averlo visto quel giorno e aver accettato quel passaggio…”. Alla domanda se si rendesse conto di essere una sorta di “capro espiatorio” dietro il quale si nascondevano altre persone, aveva alzato la voce per affermare con convinzione: “Si, lo so…”. E dopo aver insistito sul punto: “E' il momento di parlare, lo faccia per un padre e una madre che rischiano di morire prima ancora di avere un brandello di verità”, la Mileti era rimasta un momento in silenzio, per poi troncare di getto la conversazione.

“Mi auguro – aveva concluso Angelina Mancache la Procura di Roma capisca che, da questo momento, ha l’obbligo giuridico e morale di interrompere il colpevole negazionismo mantenuto fino a poco tempo fa e dedicarsi, come è suo dovere, a individuare e perseguire gli assassini di mio figlio Attilio”. Parole forti, che confluiscono ora in questa clamorosa assoluzione. Che getta ulteriori ombre sul modus operandi della Procura di Viterbo. Una procura che, alla luce di quanto dichiarato dall’avvocato Placanica, dovrebbe per lo meno chiarire quel riferimento esplicito a Monica Mileti (“falla confessare”). Dichiarazioni a dir poco inquietanti, sulle quali sono necessari maggiori approfondimenti per dipanare le ombre che restano. Ombre che, a seguito dell’odierna assoluzione, tornano ad avvolgere l’archiviazione sul caso Manca chiesta e ottenuta dalla Procura di Roma nel 2018

Ripartire dall’assoluzione di oggi con un nuovo impulso investigativo – che affondi le sue radici in tutte le zone d’ombra del caso rimaste inesplorate – è un imperativo all’interno del quale confluisce la richiesta di verità di una famiglia stremata da 17 anni di mera ingiustizia. Per due anziani genitori e per un fratello non resta che continuare a pretendere giustizia. Quella stessa che in questi anni è stata calpestata – quanto meno per ignavia – da chi, occupandosi di questo caso, l’ha amministrata spudoratamente.

Foto di copertina © per gentile concessione della famiglia Manca

Info: www.attiliomanca.it

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