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Nel blitz del Ros eseguiti fermi per 22 persone. Il 23° è il latitante di Castelvetrano

Proprio nei giorni scorsi, con l'apertura dell'anno giudiziario a Palermo, gli addetti ai lavori avevano evidenziato come Cosa nostra "continua a manifestare una elevatissima resilienza e una ostinata volontà di riorganizzarsi subito dopo ogni attività cautelare per quanto incisiva e di vaste proporzioni la stessa sia stata".
Oggi l'importante operazione del Ros dei carabinieri ha portato all'esecuzione di 23 fermi emessi dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo (Gli indagati rispondono a vario titolo di Mafia, estorsione, favoreggiamento aggravato) svelando importanti risvolti dell'organigramma di Cosa nostra e della Stidda, organizzazioni criminali operanti tra l'agrigentino ed il trapanese.
L'inchiesta, denominata "Xydi", è stata coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, dall'aggiunto Paolo Guido e dai pm Gery Ferrara, Claudio Camilleri e Gianluca De Leo e vede colpiti sei capimafia, 3 esponenti della Stidda, anche un ispettore e un assistente capo della Polizia, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, accesso abusivo al sistema informatico e rivelazione di segreti d'ufficio, un avvocato ed anche il padrino latitante Matteo Messina Denaro.

41 bis colabrodo
Le indagini hanno confermato il gravissimo sospetto per cui, negli ultimi anni, nonostante i boss fossero ristretti al 41 bis, gli stessi riuscissero perfettamente a comunicare con l'esterno, a riorganizzare i clan, a tramare, a passarsi messaggi anche tra di loro. In alcuni casi, secondo le indagini, grazie alla complicità di alcuni agenti di polizia penitenziaria addetti ai controlli dei carcerati al 41 bis, a volte riuscendo, per falle del sistema, a eludere la sorveglianza e a passare informazioni a gesti senza essere intercettati.
Le comunicazioni sarebbero state possibili anche attraverso una penalista dell'Agrigentino, divenuta - secondo quanto emerso dalle indagini - organizzatrice del mandamento mafioso di Canicattì, che utilizzava anche il proprio studio legale per i summit.
Si tratta di Angela Porcello, legale di diversi boss, compreso il capomafia agrigentino Giuseppe Falsone. Nello studio della penalista si sarebbero tenuti diversi incontri.
Attraverso le 'cimici' gli investigatori del Ros e i pm della Dda di Palermo, nell'ambito dell'inchiesta odierna, hanno assistito in diretta alle dinamiche organizzative di Cosa nostra e della Stidda.
Nello studio si sono riuniti - hanno appurato le indagini del Ros coordinate dalla Dda di Palermo - il capocosca di Canicattì, quelli delle famiglie di Ravanusa, Favara e Licata, un uomo d'onore di Villabate in provincia di Palermo e fedelissimo di Bernardo Provenzano e un esponente della rinata Stidda.
L'idea comune era quella di riportare una certa unità strategica all'interno di Cosa nostra: dall'indagine viene fuori la capacità degli esponenti di vertice delle famiglie mafiose di Agrigento, Trapani, Caltanissetta, Catania e Palermo di mantenere contatti riservati e garantirsi, quando necessario, reciproco appoggio e mutua assistenza.
L'indagine ha accertato inoltre che boss di Agrigento, Trapani e Gela, tutti detenuti nel carcere di Novara, sfruttando inefficienze nei controlli, dialogavano tra loro riuscendo anche a saldare alleanze tra cosche di territori diversi. Durante l'inchiesta, è stata anche intercettata una telefonata di un agente di polizia penitenziaria in servizio ad Agrigento all'avvocata indagata: i due avrebbero parlato di un assistito della legale, detenuto in cella per Mafia. L'agente avrebbe informato la donna che il suo cliente l'indomani sarebbe stato spostato in aereo in un altro carcere.

Quel legame con gli Usa
Dalle indagini è anche emerso che in questi anni non sono mai cessati gli storici rapporti tra la Mafia siciliana e Cosa nostra americana. Legami storici, risalenti nel tempo. In particolare è emerso che emissari statunitensi della "famiglia" dei Gambino di New York nei mesi scorsi sarebbero andati a Favara, nell'agrigentino, per proporre ai clan locali business comuni.

Messina Denaro al vertice
Non solo. Un altro elemento che non può essere sottovalutato e che in qualche maniera al vertice di Cosa nostra c'è, di diritto, Matteo Messina Denaro, capomafia trapanese riconosciuto come l'unico boss cui spettano le decisioni su investiture o destituzioni dei vertici di Cosa nostra.
Negli anni recenti diverse relazioni avevano ipotizzato che il boss di Castelvetrano, latitante da 28 anni, fosse più concentrato nella gestione della propria provincia, ma nell'inchiesta dei carabinieri del Ros emerge il ruolo di Messina Denaro, anch'egli destinatario del provvedimento di fermo.
La vicenda in cui viene coinvolto è relativa al tentativo di alcuni uomini d'onore di esautorare un boss dalla guida del mandamento di Canicattì. Dalle indagini emerge infatti che Messina Denaro è a tutt'oggi in grado di assumere decisioni delicatissime per gli equilibri di potere in Cosa nostra e per realizzare il loro progetto i mafiosi avevano bisogno del suo beneplacito.

La presenza della Stidda
Tra i destinatari del fermo c'è anche uno dei mandanti dell'omicidio del giudice Livatino, Antonio Gallea, fra i boss a capo della stidda agrigentina. Gallea, dopo 25 anni di carcere, aveva ottenuto nel 2015 la semilibertà, perché aveva mostrato la volontà di collaborare con la giustizia. Una condizione che avrebbe sfruttato per riorganizzare la Stidda e tornare a operare sul territorio.
L'altro capomafia attorno al quale la Stidda si sarebbe andata ricompattando ha scontato 26 anni ed era stato ammesso al beneficio della semilibertà il 6 settembre del 2017 e autorizzato dal tribunale di Sassari a lavorare fuori dal carcere.
Anche lui avrebbe mostrato l'intenzione di aiutare gli investigatori.
“Entrambi hanno sfruttato la disciplina premiale prevista anche per i detenuti ergastolani - scrivono i magistrati nel loro provvedimento di fermo - per ritornare ad agire sul territorio con i metodi già collaudati in passato e così rivitalizzare una frangia criminale-mafiosa, quella della Stidda, condannata da tempo all’estinzione, e proiettarla con spregiudicatezza e violenza nel territorio agrigentino”.
Una "collaborazione" che la giurisprudenza definisce "impossibile", in quanto entrambi hanno parlato di fatti già noti alla magistratura non apportando, dunque, contributi nuovi alle indagini, ma che ha consentito a tutti e due di beneficiare di premialità. Dall'inchiesta è emerso che gli stiddari siano tornati a far concorrenza a Cosa Nostra, con la quale alla fine degli anni '80 si erano fronteggiati in una guerra con decine di morti.
Ma senza giungere a spargimenti di sangue, stavolta le due organizzazioni criminali si sarebbero semplicemente spartiti gli affari.
Tra questi quello del settore delle mediazioni nel mercato ortofrutticolo, uno dei pochi produttivi della provincia di Agrigento. Dall'indagine viene fuori inoltre che gli stiddari avrebbero usato la loro forza intimidatoria per commettere estorsioni e danneggiamenti. Scoperto anche un progetto di omicidio di un commerciante e di un imprenditore, evitato grazie all'intervento degli investigatori. La Stidda - hanno scoperto i militari dell'Arma - poteva contare su un vero e proprio arsenale di armi.

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