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di Alessia Candito

Le rivelazioni di un pentito. La donna scomparve nel 2016 senza lasciare traccia

“Mi disse che la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali”. Potrebbe essere stata questa la tragica fine di Maria Chindamo, imprenditrice di Laureana di Borrello, nel reggino, scomparsa nel maggio del 2016 senza lasciare alcuna traccia di sé se non un suv abbandonato. Parola di Emanuele Mancuso, primo pentito del potente casato di ‘Ndrangheta di Limbadi, che dietro le sbarre si è confidato con un altro collaboratore. Ed è lui ad aver riferito tutto ai magistrati.
Sette febbraio 2020. Antonio Cossidente, pentito del clan dei basilischi, è seduto di fronte al pm della procura antimafia di Catanzaro, Annamaria Frustaci. Non deve parlare di sé. Collabora da oltre dieci anni, le sue dichiarazioni sono già state vagliate in decine di processi. Ma da pentito ha diviso la cella con Emanuele Mancuso, il primo a rompere il muro del silenzio che protegge il potente casato di Limbadi. “Una delle punte della stella” spiega un altro collaboratore, Cosimo Virgiglio, per spiegarne l’importanza nella complessa gerarchia della ‘Ndrangheta.
Per il clan, la decisione di Emanuele di collaborare con la giustizia è un disastro. Perché la famiglia Mancuso è grande e ramificata, ogni ramo ha la sua specializzazione funzionale, ma lui sa e tanto. “Pur non avendo la posizione del fratello, che mi diceva avesse un ruolo da killer - racconta Cossidente - sapeva tante cose della famiglia che poteva riferire agli inquirenti”. Per questo i suoi lo placcano, lo blandiscono, lo minacciano. Ai colloqui, la madre, la zia e le donne di famiglia gli fanno pressione perché ritratti, un camorrista tanto prossimo alla famiglia da dirsi “figlio a Luni” Mancuso, “L’ingegnere”, uno dei massimi vertici storici del clan, lo avvicina per consigliargli di chiudere la bocca.
Emanuele Mancuso entra in crisi. I suoi giocano sui suoi affetti, “lo minacciavano sulla bambina - spiega Cossidente - dicendogli che doveva ritrattare altrimenti non gliela avrebbero più fatta vedere”. È in quel momento che Mancuso si appoggia al vecchio collaboratore, che gli consiglia di tenere duro, gli ricorda che al clan rimangono solo questi mezzi per cercare di tappargli la bocca. E con lui il giovane pentito si apre. Gli racconta delle minacce e pressioni ricevute, ma si lascia sfuggire anche dettagli sulla sua vita di prima, da uomo di uno dei clan più potenti della ‘Ndrangheta calabrese, espressione limpida della Piana, con controllo pressoché totale del vibonese. Uno di questi riguarda Maria Chindamo.
L’imprenditrice è sparita senza lasciare alcuna traccia di sé nel maggio del 2016. I familiari hanno subito avuto il timore che si trattasse di lupara bianca, i figli che non avrebbero mai più visto la madre. E i sospetti si sono subito concentrati sulla famiglia dell’ex marito, che alla donna hanno sempre attribuito la responsabilità della morte dell’uomo, suicidatosi poco dopo esser stato lasciato. Sul punto, le indagini non hanno ancora dato risposte. Nel 2019 però in manette è finito Salvatore Ascone“U pinnularu”, narcotrafficante della galassia Mancuso e vicino di casa di Chindamo. Secondo i magistrati di Vibo Valentia sarebbe stato lui a manomettere il sistema di videosorveglianza della tenuta il giorno prima della sparizione della donna. Per inquirenti e investigatori, avrebbe collaborato a quel rapimento. Adesso però le dichiarazioni di Cossidente aprono scenari nuovi.
Emanuele, racconta il pentito al pm Frustaci, “mi disse che per la scomparsa della donna, avvenuta qualche anno fa, c'era di mezzo questo Pinnolaro che voleva acquistare i terreni della donna, in quanto erano confinanti con le terre di sua proprietà”. E lui “aveva pure degli animali, credo che facesse il pastore e questa donna si era rifiutata di cedere le proprietà”. Per Ascone, Maria Chindamo era un ostacolo da eliminare. La storia personale della donna, entrata in rotta di collisione con la famiglia del marito, uno specchietto per le allodole buono per evitare tutti i sospetti o quasi. “Emanuele - si legge nei verbali di interrogatorio di Cossidente - mi ha detto che in virtù di questo l’ha fatta scomparire lui, ben sapendo che se le fosse successo qualcosa, la responsabilità sarebbe certamente ricaduta sulla famiglia del marito della donna, poiché l’uomo, dopo che si erano lasciati, si era suicidato”. Ascone quei terreni li voleva a tutti i costi. “Quindi questo Pinnolaro, sapendo delle vicende familiari della donna, sarebbe stato lui l'artefice della vicenda - racconta Cossidente - per entrare in possesso dei terreni e poi far ricadere la responsabilità sulla famiglia del marito, in modo da entrare in possesso di quei terreni. Mi disse che la donna venne fatta macinare con un trattore o data in pasto ai maiali”. Per far scomparire ogni traccia, per cancellare ogni indizio.
Adesso toccherà a inquirenti e investigatori vagliare le sue dichiarazioni. Ma un primo dato c’è. Coincidono almeno in parte con quanto in precedenza Mancuso ha riferito su Ascone e la sua avidità. “Lui - ha raccontato - aveva interesse ad acquisire i terreni di proprietà dei vicini e, per timori circa possibili misure di prevenzione nei suoi confronti, era solito pagarli prima in contanti, per evitare la tracciabilità dei pagamenti, lasciarli formalmente intestati agli originari proprietari, per acquisirli successivamente attraverso l’usucapione”. I verbali dei suoi interrogatori sono ancora coperti da larghi omissis. Mancuso sa e sta parlando, ma le sue dichiarazioni vengono di volta in volta vagliate e riscontrate con estrema attenzione. Ma potrebbero essere la chiave per dare alla famiglia Chindamo risposte e pace.

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