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Il tempo è sempre galantuomo e lo sarà anche sull'attentato al collega Sigfrido Ranucci. Più passa e più farà ipotizzare una trama complessa, un movente profondo, un'intimidazione architettata per garantire l'assoluta impunità, e suonare da sfida nella piena consapevolezza della frontalità di quanto compiuto. Al contrario, se il caso dovesse chiudersi nel breve emergerà una geometria più semplice della ragnatela d'odio, un ordigno rudimentale, un piano organizzato in fretta in risposta a un'urgenza immediata o istintiva. In entrambe le prospettive, c'è poco da star allegri. Ai giornalisti cambia poco e dovremo pensare solo al peggio perché la violenza è la risposta alle nostre inchieste, al far cronaca, si declina come psicologica, economica, legale e, sempre più spesso, fisica. La paura di Sigfrido Ranucci specchia centinaia di giornalisti che in Italia subiscono ogni sorta di vessazione nei diversi gironi infernali dove qualcuno vorrebbe relegarci anestetizzando così la passione del trovare e pubblicare notizie. Ecco le liti temerarie che trascinano in interminabili processi cronisti rei di lesa maestà nei confronti del politico, giudice o imprenditore di turno e preoccupano l'editore. Ecco i colpi di pistola su persiane, auto o i proiettili recapitati a chi - Calabria in testa - firma articoli di denuncia pagati cinque euro, rigorosamente lordi. Ecco trojan, localizzatori, pedinamenti, intercettazioni abusive a chi fa emergere qualche lordura dal sistema fognario nazionale. E che dire dei pestaggi di giornalisti e troupe televisive, ormai all'ordine del giorno con distruzione di microfoni, telecamere e referti medici per i mal capitati? Né bisogna dimenticare situazioni più infime, nel sottoscala italico dei ricatti tentati o consumati con fotografie che autorevolissimi giornalisti hanno visto recapitare a loro mogli e fidanzate, frutto di sofisticati invisibili montaggi per screditarli e distruggere famiglie. O chi usa i media per operazioni psicologiche nelle guerre ibride commerciali o politiche.
Allora che fare, sarà forse meglio occuparsi di araldica, lotterie e madonne pellegrine? In realtà, chi vive della passione di questo mestiere trova e trae linfa da quanto accade. La passione dà dipendenza e garantisce indipendenza. Non se ne può fare a meno. Non c'è nessun giornalista di razza che abbia mai ceduto di fronte alle minacce. È geneticamente impossibile. Anzi, si rafforza la consapevolezza che fare informazione – seppur con tutte le irrinunciabili differenze tra singoli testate gruppi - sia una strada unica da percorrere senza indugio, senza percorsi alternativi. Ma non si può far finta di non vedere come l'attacco all'informazione si stia amplificando negli strumenti d'assalto e normalizzando nella quotidianità del comune percepire. Non rappresenta più un bene sacro. da tutelare perché funzionale per la democrazia. Al contrario, diviene sempre meno prezioso, complice il momento di assoluta liberalizzazione anarchica nella rete dei ruoli, dove non si distingue più vero da verosimile o falso che sia. La micidiale tenaglia che uccide l'informazione è così presto stretta: da una parte chi deve tutelare interessi e reagisce con ogni mezzo, dall'altra internet trasformato in catena di montaggio di fake news ad alta digeribilità.   

Tratto da: La Stampa  

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