A due anni dal 7 ottobre: l’attacco di Hamas, l'inferno nella Striscia, le complicità e i decenni di occupazione
“L'Olocausto è una pagina del libro dell’umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria”. Erano le parole sofferte di Primo Levi. Erano le parole, stanche, di un ebreo italiano che a quell’incubo è sopravvissuto e, affrontando le mostruosità impresse nella mente, ha comunque avuto la forza di raccontare affinché non si ripetesse mai più. “Nunca màs”, come dicono le famiglie dei desaparecidos. E invece? Oggi, 2025, ottant’anni esatti dopo l’apertura dei cancelli di Auschwitz, i figli e i nipoti di chi dentro quei campi di concentramento veniva fucilato o soffocato nelle camere a gas sta conducendo un nuovo Olocausto. Un nuovo abominio. Questa volta sulla pelle di altri e sotto gli occhi di tutti. Questa volta per nome e per conto dello Stato ebraico. La vittima che diventa carnefice. Quanto può essere assurda la storia dell'"Umanità", a proposito del “libro” di cui parlava Levi. “Ognuno è ebreo di qualcuno... oggi i palestinesi sono gli ebrei di Israele”, diceva. E’ ormai chiarissimo che Israele - lo Stato-nazione del popolo ebraico, come si è definito per legge nel 2018 - non solo quel segnalibro della memoria l’ha rimosso dalla sua pagina, ma ha gettato l’intero volume. E non sembra essergli pesato più di tanto. Ne abbiamo avuto un primo “assaggio” il 17 settembre 1948 con l’assassinio del conte Folke Bernadotte, che fu capo della Croce Rossa svedese e aveva negoziato il rilascio di 15.000 ebrei dai campi di sterminio durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo l’armistizio venne incaricato come mediatore della neonata Onu tra i coloni ebrei arrivati dall’Europa e il popolo indigeno palestinese. 
Il conte Folke Bernadotte
Bernadotte ebbe l’idea di proporre il riconoscimento di Gerusalemme agli arabi e il ritorno dei rifugiati palestinesi dopo la Nakba (l’esodo dei palestinesi). Idea fatale. Fu freddato dal gruppo terrorista "Lehi", più noto come “Banda Stern”. Sionisti israeliani per l’appunto. A premere il grilletto fu Yehoshua Cohen, il quale diventerà, più avanti, guardia del corpo di David Ben Gurion, il primo dei primi ministri (di sinistra, per giunta) di Israele (quello che sosteneva la deportazione dei palestinesi). Ma nessuno se lo ricorda. Se c’è una cosa in cui Israele è bravissimo, infatti, è quella di cancellare la storia quando è scomoda, additare chi la ricorda e ricucirsela addosso come meglio ritiene per giustificarsi o per legittimarsi quando gli conviene. In Israele è una pratica, anzi una propaganda, che si è andata consolidando nel corso dei decenni, a braccetto con il progetto sionista della colonizzazione della Palestina. In ebraico si chiama: “Hasbara”. Della “hasbara” ne sono stati vittima tanti. Ne è vittima la verità, ne sono vittime i palestinesi e perfino gli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio che hanno denunciato i crimini di Israele, per questo sistematicamente censurati, squalificati ed insultati. Gli israeliani sionisti chiamano gli ebrei antisionisti “self-hating Jew” (ebreo che odia sé stesso). Ecco perché, probabilmente, della “hasbara” ne sarà forse vittima anche questo umile dossier che vuole provare a fare il punto su quanto di terribile e inumano sta avvenendo in Palestina a due anni dall’inizio del genocidio. E soprattutto sulle complicità di Italia, Europa e governi arabi.
Dopo l'esodo (Nakba), le prime classi scolastiche a Gerico
si sono tenute all'aria aperta
La storia non parte dal 7 ottobre
Per la grande stampa, per il governo Meloni e per certi storici e giornalisti, cioò che avviene a Gaza, quello che noi chiamiamo genocidio (al quale costoro preferiscono, al massimo, il termine “orrore” o “tragedia”) è responsabilità dei “terroristi di Hamas”. Non Israele, costretto - sostengono - a rispondere con il pugno di ferro al 7 ottobre. A sentire la loro campana il dramma del popolo palestinese comincia, per colpa dei palestinesi stessi, quella mattina di due anni fa, quando l’ala militare di Hamas ha avviato un attacco a sorpresa contro le basi dell’esercito e i kibbutz limitrofi all’enclave (su quanto fosse stata colta “a sorpresa” l’intelligence israeliana, ci sono diverse punti di vista ma non ne parleremo qui). Nell’assalto, oggettivamente brutale, sono stati uccisi circa 1200 israeliani e oltre 200 sono stati presi e tratti in ostaggio dentro la Striscia (quelli che l’aviazione israeliana non è riuscita a eliminare con la Direttiva “Hannibal” (accertata da un’inchiesta del Jerusalem Post), uno dei protocolli militari più infami, che prevede l’eliminazione degli ostaggi pur di impedirne la cattura). Il 7 ottobre è stato un giorno che resterà a lungo nelle menti di palestinesi e di israeliani. Su questo non ci sono dubbi. Tantomeno possono essercene sul fatto che il 7 ottobre siano stati commessi dei crimini (non gli stupri e le decapitazioni di bambini, poi smentiti dagli stessi organi di stampa americani che li avevano ignobilmente rilanciati). Crimini per i quali i mandanti (di Hamas) erano finiti sotto accusa all’Aja, così come poi ci finiranno i mandanti del genocidio (il primo ministro Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Gallant). I primi però sono stati assassinati da Israele prima ancora che il processo potesse iniziare, gli altri, invece, sono tuttora liberi di scarrozzare per il mondo, aggirando il mandato di cattura della CPI (che Israele comunque non riconosce). Per non parlare di tutti quei generali, soldati di leva e riservisti - i macellai per capirci - sui quali non esiste un ordine di cattura e ancora in piena attività sulla Striscia.
Ma perché si è arrivati al 7 ottobre? I palestinesi, sia in patria, che in diaspora, rispondono in un solo modo: per rabbia, per sete di giustizia, per desiderio di libertà. Diceva Tiziano Terzani che il terrorista non va giustificato ma compreso. Comprendere, però, non significa assolvere, ma individuare il contesto, le pressioni, le ingiustizie che possono generare reazioni tanto estreme. Nel caso dei palestinesi, e in particolar modo dei palestinesi della Striscia di Gaza, l’elenco di ingiustizie è così vasto che non basterebbe un libro per scriverlo. Gli oltre due milioni di palestinesi di Gaza, la maggior parte dei quali reduci della Nakba del 1948 (di cui parleremo tra poco) vivono sotto occupazione (di mare, di confine e di cielo), ammassati e controllati in un fazzoletto di terra da cui nulla e nessuno entra o esce senza autorizzazione israeliana, nella prigione a cielo aperto più grande al mondo, sotto embargo da quasi vent’anni e per tale ragione in estrema precarietà.
Vivono isolati da tutto, persino dai propri connazionali della Cisgiordania e dai familiari che la abitano e non possono raggiungere salvo permessi speciali. 
Milizie di Hamas
Oltre ciò, dal 2007, anno in cui Hamas vince le elezioni e sale al potere, i “gazawi” hanno subito almeno cinque offensive militari israeliane con oltre 5000 morti, di cui 1200 bambini (con l’utilizzo anche di armi non convenzionali). Non solo la brutalità dell’occupazione o delle bombe, non solo i vari massacri compiuti dalle milizie israeliane pre e post nascita dello Stato di Israele, ad aggiungersi al dramma - ed è probabilmente la ragione scatenante del 7 ottobre - c’è anche la disillusione verso la strada diplomatica, dopo 30 anni d'empasse, e il tentativo di depoliticizzare la causa palestinese con la normalizzazione dei rapporti di Israele con le monarchie del Golfo. Prima gli Emirati e il Bahrein (che hanno stipulato gli "accordi di Abramo" promossi dalla prima amministrazione Trump) e poi l’Arabia Saudita, che proprio nel 2023 aveva iniziato ad avvicinarsi a Israele. Un avvicinamento fatale che avrebbe potuto significare la fine delle aspirazioni politiche palestinesi e del loro diritto all’autodeterminazione, avendo perso un grande alleato quale Ryad. Per tutti questi motivi il popolo palestinese - e ormai moltissimi cittadini di tutto il mondo - ma anche giuristi e storici di fama internazionale, rifiutano di qualificare come “terroristica” un’azione che, seppur brutale e violentissima, avviene in risposta a 75 anni di occupazione e a 17 anni di assedio incessante. Frantz Fanon, ne “I dannati della terra”, sosteneva che la violenza del colonizzato non è un atto di barbarie, ma una necessaria e catartica reazione al trauma e all'oppressione del colonialismo, un modo per ritrovare la propria umanità, liberare la propria soggettività e risanare il malessere psichico inflitto dall'oppressore. Il tema non è giustificare, ma capire. Di fatto, le azioni commesse da Hamas (con loro altre fazioni militari palestinesi) il 7 ottobre nulla hanno di diverso dalla lotta anticoloniale algerina, haitiana o sudafricana (anche Nelson Mandela era considerato terrorista). O, banalmente, da ciò che l’OLP fece dal 1964 agli anni ’90. Lo stesso Bettino Craxi, così come Giulio Andreotti, da presidenti del Consiglio, riconoscevano ai palestinesi il loro diritto alla resistenza. “Contestare ad un movimento che voglia liberare il proprio paese da un’occupazione straniera la legittimità del ricorso alle armi significa andare contro le leggi della storia”, disse in Parlamento il leader del Partito Socialista citando l’esempio di Antonio Gramsci. E anche qualora chi resiste a un sistema di oppressione è “terrorista” sicuramente non è uccidendolo, affermava Tiziano Terzani, che si risolve il problema. Soprattutto se lo si intende fare commettendo un genocidio. 
Francesca Albanese © Paolo Bassani
E’ genocidio
Dicevamo del genocidio. Il genocidio secondo le convenzioni internazionali è la distruzione programmata di un gruppo, di un popolo o di un’etnia in quanto tale. Ed è perseguibile proprio perché ha una sua giurisprudenza. Ce lo ha spiegato Francesca Albanese, relatrice Onu per il Territorio Palestinese Occupato, anche lei finita nel tritacarne israelo-statunitense (è giusto che si cominci a parlare dei due paesi come un’unica entità) dopo aver denunciato le complicità di multinazionali e governi in quello che da oltre un anno definisce come genocidio. Ciò che avviene a Gaza ha proprio questo scopo e poco ha a che vedere con la minaccia "Hamas", ormai decisamente depotenziata dal punto di vista militare. Il vero scopo, vedremo tra poco, è fare pulizia etnica, cacciare i palestinesi dalla loro terra. Sterminare o rimuovere i palestinesi come gruppo in quanto popolazione indesiderata in una terra che deve essere solo per ebrei. Che di genocidio si tratti lo ha confermato anche il Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU qualche settimana fa. E come altro poter descrivere quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza, una prigione a cielo aperto bombardata, affamata e trasformata in lager, grande un terzo della superficie di Roma? Quando abbiamo iniziato a scrivere questo dossier Benjamin Netanyahu e i ministri dell’estrema destra messianica Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir erano appena riusciti a strappare il via libera dell’esercito per l’occupazione totale di Gaza. Sempre con l’obiettivo della pulizia etnica mascherata dalla lotta al terrorismo. Oggi l’occupazione è avvenuta, e la deportazione forzata è stata avviata (non con i risultati sperati, dato che più della metà dei palestinesi ha deciso, un po’ per estremo coraggio e un po’ per impossibilità economica, di restare). Molti analisti e molti ex internati nei campi nazisti hanno chiamato il piano del governo come “soluzione finale”. Termini che tornano a far tremare le vene ai polsi a distanza di 80 anni. Il progetto del gabinetto di guerra genocida e criminale di Israele prevedeva la deportazione di oltre un milione di persone da Gaza City verso Sud (l’ennesimo, ma questa volta permanente), in quella che doveva essere la più grande operazione di spostamento forzato ed internamento della storia recente. Nel ghetto di Varsavia, svuotato, manu militari, vivevano non più di 350mila persone e i nazisti ci impiegarono due mesi per liberarsene.
Bezalel Smotrich
Israele ha provato a sfollarne più del doppio in soli tre, entro il 7 ottobre 2025. Non riuscendoci. Nonostante ciò erano comunque servite a poco le forti opposizioni delle stesse Idf e dei familiari degli ostaggi israeliani (opposizioni per l’incolumità degli ostaggi e dei riservisti mandati a combattere, di certo non per il destino dei palestinesi). “La conquista di Gaza trascinerà Israele in un buco nero”, avrebbe detto il capo di Stato Maggiore Israeliano riferendosi al maggior isolamento internazionale a cui sarebbe andato incontro il Paese. Previsione azzeccata.
Ancora meno sono servite le condanne dei principali alleati di Israele in Europa (delle Nazioni Unite o delle Ong non ne parliamo nemmeno), o degli ebrei sopravvissuti all’Olocausto. Gli stessi che da mesi, e sempre in numero crescente, concordano sulla definizione di “genocidio” perché ne riconoscono i meccanismi e le brutalità. Ne citiamo alcuni: Stephen Kapos, Hajo Meyer, Reuben Muscovitz, Gabor Maté, Veronika Cohen, e Marione Ingram (“Se a Gaza c’è un genocidio? Assolutamente. Non è l’Olocausto, ma è un Olocausto, sicuramente un Olocausto…”). Due mesi fa anche il celebre scrittore israeliano David Grossman, figlio di genitori perseguitati dalle SS, che fino a questo momento non ha mai voluto ammettere la sussistenza del genocidio, è stato netto, scatenando l’indignazione di molti ebrei sionisti in un'intervista a La Repubblica: “Per molti anni mi sono rifiutato di utilizzare questa parola. Ora però, dopo le immagini che ho visto e quello che ho letto non posso trattenermi dall’usarla”. Nota dolente: l’opinione dei palestinesi sulle brutalità che subiscono sulla propria carne evidentemente non è sufficiente. I crimini israeliani per essere verosimili allo sguardo del Mondo devono essere denunciati da una voce ebraica, ancor meglio se israeliana (e spesso non basta neppure quella). Ma andiamo avanti.

Marione e Daniel Ingram durante una protesta davanti all'ambasciata israeliana a Washington DC
Gaza oggi
La situazione nella Striscia di Gaza - per non parlare dei territori occupati dove l’apartheid e le violenze dei coloni e dell’esercito si fanno sempre più soffocanti - è da Canto d’Inferno dantesco. Oltre l’80% della Striscia è ridotta in macerie, 2 milioni di sfollati, spostati, sotto minaccia, come greggi di pecore, più di 66.000 palestinesi assassinati (di questi, 2/3 sono donne e minori), oltre 150mila feriti, più di 300 morti per la fame (la metà circa sono bambini). Parliamo di vittime che alla pubblicazione di questo dossier saranno sicuramente aumentate di numero. Per non parlare dei cadaveri schiacciati sotto le case, irraggiungibili. Secondo una recente indagine del Dr. Gideon Polya e Richard Hil, sarebbero 136.000 le morti dirette (bombardamenti e violenze) mentre 544.000 le morti indirette (fame, sete, mancanza di cure). I due esperti stimano in totale 680.000 persone ammazzate da Israele di cui 380.000 bambini sotto i 10 anni. In questi 24 mesi, esercito e aviazione israeliana hanno colpito incessantemente tendopoli, ospedali, ambulatori, incubatrici, edifici, ambulanze, scuole, università, chiese, moschee, mense, sedi di ONG. E ancora. Fosse comuni, stupri, detenzioni, torture, furti, case e quartieri sventrate per divertimento. Sadismo puro. Per non parlare dell’intenzionalità con cui viene affamata la popolazione civile. La fame usata come arma. Migliaia di camion di aiuti bloccati ai confini della Striscia su ordine delle autorità israeliane, grandissima parte del cibo (ormai avariato) buttato. E per procurarselo, per alcuni mesi, i palestinesi hanno marciato chilometri a piedi sotto il sole accalcandosi nei centri di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation - un nome elegante per chiamare una trappola di morte - appositamente collocati in zone militarizzate, gestita da contractors americani su supervisione dell’Idf, dove, in attesa di farina, vengono deliberatamente fucilati come cani, per divertimento. 
Scene che rimandano ai ghetti ebraici in Germania. Ma la fame, come racconta il dottor Ezzedin di Gaza, “spingerebbe un uomo a incamminarsi verso la propria esecuzione se dietro la pistola ci fosse anche solo l’ombra di un po’ di riso”. I cittadini di tutto il mondo sono sempre più indignati. Ne è la dimostrazione la manifestazione di Roma del 4 ottobre partecipata da un milione e mezzo di persone, e dallo sciopero indetto il giorno prima e il 22 settembre in cento città italiane, da Nord a Sud, che hanno bloccato il Paese. Già durante l’estate l’indignazione popolare ha spinto i governi di tutto il mondo, incartati dalla loro complicità con Israele, a fare qualcosa, annunciando il loro riconoscimento dello Stato di Palestina (che a nulla serve finché persiste il genocidio e l’occupazione, come ha spiegato lo scrittore palestinese Mohammed El-Kurd). E nei mesi scorsi avevano ripreso a lanciare aiuti da aerei militari, che oltre ad essere costosi contengono la metà degli aiuti che potrebbe trasportare un singolo camion merci di quelli bloccati oltre le frontiere. E talvolta finivano pure per ammazzare chi, a terra, correva disperato per accaparrarsi qualche sacco prima che venisse preso da altri. A Gaza i bancali piovevano dalle nuvole come mangime per polli, in un pollaio destinato al macello. Spacciato come sforzo umanitario dai vari paesi che hanno spedito aiuti (Italia inclusa), in realtà è solo un modo per ripulirsi la coscienza dall’accusa di aver armato e difeso Israele e di non essere stati in grado nemmeno di costringere Israele ad aprire le frontiere per i camion. Un tentativo, maldestro pure questo, di ripulirsi la coscienza l'abbiamo visto anche quando Giorgia Meloni ha rivendicato che l’Italia è il Paese che in Europa ha accolto più orfani palestinesi. Peccato che l’Italia è anche il terzo paese al mondo ad armare chi li ha resi tali. Se George Orwell fosse ancora in vita sbiancherebbe al sapere cosa avviene ai palestinesi oggi. "1984", uno dei suoi capolavori letterali, risulterebbe obsoleto se paragonato a quanto Israele è riuscita a fare ai palestinesi in totale impunità. E qui ci fermiamo a una domanda cruciale: perché si è arrivati al genocidio e di chi è la responsabilità?
Theodor Herzl
L’artefice: il sionismo
Il vero artefice di questo genocidio è uno solo: il sionismo. Un’ideologia politica nata in Europa a cavallo tra il XIX e il XX secolo di carattere puramente coloniale che è riuscita, sfruttando la persecuzione antisemita e la Torah, a istituire uno stato-nazione esclusivamente ebraico in una terra lontana e già abitata: la Palestina. Il sionismo, nelle parole dei suoi fondatori, è un’ideologia esplicitamente “colonialista” e suprematista che prevede la nascita di una nazione per soli ebrei. “Un popolo senza terra per una terra senza popolo”, era la narrazione dell’epoca, chiaramente fuorviante (la Palestina, un popolo, ce l’aveva eccome). Theodor Herzl, giornalista ungherese ebreo di discendenza (ateo, incredibile a dirsi), nonché padre del sionismo dichiarava: “Tenteremo di sospingere la popolazione (palestinese) in miseria oltre le frontiere procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra…”. Parliamo di oltre un secolo fa. Qualche decennio più tardi il primo ministro David Ben Gurion completò il concetto: “Dobbiamo fare di tutto per impedire loro (i palestinesi) di ritornare”. Per “sospingere” i palestinesi ad andarsene Israele ha usato il terrorismo di Stato e i furti di terre. Ma prima di questo li ha disumanizzati, come fa oggi. Una pratica che necessita un indottrinamento continuo dalla tenera età. Solo disumanizzando si può annientare l’altro. Solo disumanizzando, trattando il prossimo come “diverso” o come “minaccia”, si può commettere genocidio. Quattrocentocinquanta villaggi distrutti ed oltre 750mila palestinesi cacciati con la forza hanno consentito ai sionisti di creare il loro Stato nel 1948 nella Palestina storica. Israele, “l'unica democrazia del Medio Oriente”, nasce sul sangue di una popolazione indigena massacrata, espropriata ed esiliata. Non è un’opinione, è un dato di fatto incontrovertibile. Si tratta di nefandezze che sono continuate, impunite, per decenni, fino ad ora. E questo, nonostante gli accordi (disastrosi) di Oslo degli anni ’90 con i quali l’OLP rinunciò alla lotta armata e al riottenimento delle terre derubate in cambio dell’autogoverno, limitato, di parte della Cisgiordania (meno della metà) e della Striscia di Gaza oltre alla promessa dello smantellamento delle colonie presenti e della non costruzione di nuove. Promesse tradite, perché l’obiettivo del sionismo, di destra come di sinistra, è sempre stato lo stesso: costruire la “Grande Israele”. 
David Ben Gurion
Ovvero quella terra promessa da Dio che dal Giordano arriva fino al Mediterraneo e includerebbe anche pezzi delle attuali Giordania, Siria e Libano. Viene facile dedurre che l’unico modo per riavere quella “terra promessa” per sé è quello di sbarazzarsi di coloro che la abitano e la rivendicano (a ragione) come propria. Ecco perché in Palestina è in corso una pulizia etnica da oltre 77 anni, sostenuta dall'Inghilterra prima e da Stati Uniti poi, come spiega lo storico israeliano Ilan Pappé. Con tutto quello che ne è conseguito anche nei vicini stati arabi, che nei decenni si sono mano a mano genuflessi a Israele. “Il danno prodotto dall’aver riversato una popolazione aliena (i sionisti immigrati in Palestina, ndr) su una terra araba forse non si riparerà mai più... Ciò che abbiamo fatto, facendo concessioni non agli ebrei ma a un gruppo di estremisti sionisti, è stato di aprire una ferita in Medioriente, e nessuno può predire quanto essa si allargherà”. Era il 1922, e a parlare alla Camera dei Lords di Londra sul Mandato britannico in Palestina (1922) (Londra aveva colonizzato la Palestina dopo la caduta dell’impero Ottomano) era Lord Sydenham. E’ chiaro quindi che i vari ministri dell’ultradestra messianica israeliana come Smotrich e Ben Gvir non sono frutti malati di un albero sano. Sono frutti malati di un albero altrettanto malato: il sionismo. Il merito dei partiti come il Likud di Netanyahu (lo stesso che nel 1996 faceva campagna elettorale urlando “morte agli arabi”) ed altri è quello di essere riusciti a fare ciò che nessuno prima era riuscito a fare in Israele. Hanno sdoganato una violenza e un linguaggio che già strisciava nella società israeliana, anche tra i liberal di Tel Aviv. Ne è la dimostrazione - per esempio - il fatto che i milioni di cittadini che protestano in strada contro il governo per la fine della guerra a Gaza non lo fanno per salvare le vite dei palestinesi, ma solo per portare a casa gli ostaggi (salvo rarissime eccezioni). La destra messianica - che tiene ancora banco in Israele - ha dato un volto mostruoso ai palestinesi, li ha demonizzati e targetizzati rifacendosi alle sacre scritture. Il popolo palestinese diventa così “Amalek”, il male assoluto secondo la Bibbia ebraica. “Dobbiamo ristabilire il sistema giuridico della Torah”, ha detto Smotrich recentemente. “E schiacciare i nemici come gli israeliti schiacciarono Amalek, su ordine divino, fino alla totale distruzione”. I sionisti ultraortodosi hanno trasformato il colonialismo di insediamento del sionismo in colonialismo messianico contro "Amalek". Oggi il mondo inorridisce davanti alle loro dichiarazioni, ma la politica che conducono, di odio profondo, è già realtà da tempo. L’apartheid, le colonie, il razzismo sistemico, gli omicidi, le confische di terre e le detenzioni esistono da decenni.

L’economia del genocidio e il piano (trappola) di Trump
Israele è a tutti gli effetti una colonia dell’impero occidentale nel levante, che è lì principalmente per ragioni strategiche, geopolitiche ed economiche. Israele serve agli Stati Uniti, serve alle alleate pretolmonarchie del Golfo (che hanno tradito la solidarietà ai palestinesi), e serve all’Europa. Tutti godono del “sistema” Israele. Un sistema di complicità che il genocidio in corso a Gaza ha reso più visibile. Da qui si spiega il rifiuto, da parte di questi governi, di qualificare come “genocidio” la campagna israeliana a Gaza, i tentennamenti nel riconoscere ai palestinesi i loro diritti (a partire dal diritto all’autodeterminazione) e le varie astensioni di voto alle mozioni di cessate il fuoco all’Onu (Italia in testa). Per fare degli esempi pratici.
Il sostegno incondizionato a Israele dell’Occidente lo abbiamo scoperto con ancora più chiarezza con il rapporto della relatrice Onu Francesca Albanese che ha accertato la complicità nel genocidio e nella pulizia etnica di circa mille compagnie e multinazionali che da questi orrori hanno tratto profitto. La rete che tiene in piedi l’occupazione è ramificata come ramificate sono le politiche di espropriazione, espulsione e di apartheid. Per sostenere una rete di questo tipo è necessario un supporto esterno. Da decenni, Israele lo riceve da centinaia di aziende private, multinazionali, università, fondi d'investimento, banche e società high-tech. Nel rapporto troviamo giganti dell’economia mondiale: l’italiana Leonardo (partecipata al 30% con il ministero dell’Economia), Google, Amazon, Hp, Microsoft, Ibm, BlackRock, Chevron, Caterpillar, Volvo, Hyundai, Lockheed Martin, Airbnb e Booking.com. 
E’ questa l’economia dell’occupazione e del genocidio. Un’economia che non verrà certo scalfita dal piano di Trump per la fine della guerra a Gaza, di cui diplomatici israeliani e delegati di Hamas stanno discutendo a Sharm El Sheikh. Un piano piovuto dall’alto, l’ennesimo che esclude una partecipazione palestinese, cioè i diretti interessati. Il piano è “un progetto neocoloniale - lo ha definito Rashid Khalidi, professore emerito di Studi Arabi Moderni alla Columbia University - che separerebbe la Striscia di Gaza dal resto dei territori occupati. E instaurerebbe un controllo esterno sui palestinesi, lasciando loro pochissima voce in capitolo sull’autogoverno”. Si tratta, infatti, di una proposta che soddisfa i desiderata israeliani e ignora le richieste dei palestinesi. “In questo senso è assolutamente in continuità con le precedenti proposte americane, risalenti a molti, molti anni fa, ben prima che Trump diventasse presidente”, commenta Khalidi. Stati Uniti, Europa e soprattutto Israele ignorano volontariamente l’elefante nella stanza, come fanno dal 1948: l’occupazione e la colonizzazione della Palestina. Senza questi presupposti di giustizia, israeliani e palestinesi non potranno mai coesistere e la spirale di violenza sarà destinata ad allungarsi per ancora tanto, troppo tempo.
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