Dal pronto moda vesuviano alle banche parallele cinesi, c’è un filo invisibile che lega Campania e Prato?
Più si va avanti e meglio si comprende come la cosiddetta “guerra delle grucce”, una delle vicende più oscure e intricate della comunità cinese di Prato, non sia soltanto una faida commerciale, ma il riflesso di una lotta più ampia che coinvolge anche gli interessi della mafia cinese. Una questione delicatissima che ora sembra includere l’ombra di un’ingerenza diplomatica: la rogatoria internazionale inviata dalla procura di Prato alle autorità di Pechino è rimasta senza risposta. Un silenzio, quello delle istituzioni cinesi, che rischia di diventare una cortina impenetrabile su un’inchiesta che, col passare del tempo, rivela risvolti sempre più inquietanti.
Tutto è iniziato con la testimonianza di un collaboratore di giustizia, fratello di un imprenditore rimasto gravemente ferito durante un tentato omicidio il 6 luglio 2024. L’uomo ha raccontato ai magistrati di essere stato avvicinato a Prato da alcuni funzionari dell’ambasciata cinese di Roma. Secondo il suo racconto, non si trattò di un incontro formale: quegli emissari avrebbero condotto di propria iniziativa una sorta di indagine parallela, ascoltando altre persone informate sui fatti e raccogliendo informazioni sui presunti mandanti dell’aggressione. Informazioni che, sempre secondo il testimone, sarebbero poi state trasmesse alle dogane cinesi.
Per chiarire natura e portata di queste iniziative, la procura diretta da Luca Tescaroli ha chiesto formalmente alla magistratura cinese gli atti di un eventuale procedimento penale sul caso, l’identità dei funzionari inviati a Prato e delle persone da loro ascoltate. Richiesta rimasta lettera morta. Da Pechino, nessuna risposta: nessun documento, nessuna spiegazione. Soltanto un lungo silenzio che ha alimentato i dubbi su quanto accaduto.
Il “pronto moda” di San Giuseppe Vesuviano
Tornando al 6 luglio 2024: un commando di sei uomini arrivati dalla Cina fece irruzione nel locale “Number One”, nel cuore della Chinatown pratese, con l’obiettivo di colpire un imprenditore 42enne, già condannato per omicidio nel 2006 a San Giuseppe Vesuviano (Campania) e nel frattempo diventato un nome di peso nel commercio delle grucce. L’attacco del 2024 fu brutale: l’uomo, infatti, venne accoltellato più volte all’addome e si salvò per miracolo. Le indagini permisero di identificare e arrestare cinque membri del gruppo, tra Calabria e Sicilia, grazie alle immagini delle telecamere e alle intercettazioni. Tutti furono condannati in rito abbreviato a sette anni e mezzo. L’ultimo, il presunto capo del commando - un ex soldato dell’esercito cinese - è stato scarcerato pochi giorni fa per un vizio di forma e resta in attesa di giudizio. La vittima, ancora convalescente, ha ricostruito la vicenda: “Nel settore delle grucce c’è chi detta legge. Se abbassi i prezzi, vieni colpito”, avrebbe detto.
Ad ogni modo, anche la presenza dell’imprenditore cinese a San Giuseppe Vesuviano nel 2006, per l’omicidio per cui è stato condannato, potrebbe non essere stata casuale. In quel caso il gip di Napoli dispose la custodia cautelare in carcere per cinque cittadini cinesi accusati dell’uccisione di un connazionale. L’indagine - operazione “Villa Paradiso” - fu diretta dalla DDA di Napoli ed eseguita dal Centro operativo DIA di Firenze e dalla Squadra Mobile di Napoli, con perquisizioni in diverse regioni. 
Gli investigatori inquadrarono l’assalto del 22 maggio 2006 al Ristorante Hotel Villa Paradiso come una spedizione punitiva compiuta da un gruppo di giovani cinesi arrivati tutti da fuori zona, in particolare dall’asse toscano, dentro dinamiche criminali tra connazionali. La Direzione nazionale antimafia, nella sua relazione del 2008, descrisse il raid come opera di sei giovani “killer su mandato”, richiamando la prassi di inviare commando da altre città per rendere più difficile risalire al movente.
Da molti anni anche San Giuseppe Vesuviano, alle falde del Vesuvio, è diventato un ingranaggio stabile del pronto moda, con una costellazione di laboratori di confezione conto terzi, depositi e micro-ingrossi che alimentano l’intero distretto vesuviano. L’area di San Giuseppe Vesuviano - insieme a Terzigno, Ottaviano e Palma Campania - figura da tempo tra i poli campani dei cosiddetti “capi grey”, cioè capi d’abbigliamento non ultimati o semilavorati, e della contraffazione. Non è un caso che i documenti ufficiali indichino qui una quota significativa della manifattura irregolare, raccontando come la Camorra, nelle sue diramazioni locali, abbia messo le mani su snodi essenziali dell’intera filiera del falso: dall’import alla lavorazione fino alla distribuzione. Dentro questo quadro, anche a San Giuseppe Vesuviano - come a Prato - la comunità cinese ha consolidato la sua presenza nel tessile e nell’abbigliamento in misura esponenziale, crescendo con gli anni. Ed è nello stesso scenario che compaiono intese operative tra clan di Camorra e referenti della comunità cinese in alcuni mercati napoletani, pensate per spartire gli spazi e garantire una convivenza “ordinata” nella vendita di merce contraffatta.
Il sistema Prato
Ma il procuratore Tescaroli l’ha già detto più volte: la recente escalation di violenza legata alla mafia cinese - con l’uso crescente di armi da fuoco - non è episodica e mette a rischio l’intera comunità. Per reagire, ha creato in Procura una sezione dedicata alla criminalità cinese, focalizzata su reati economico-finanziari, violenti e sull’immigrazione, chiedendo al contempo più risorse alle forze dell’ordine e agli uffici giudiziari, oggi sottodimensionati rispetto alla realtà pratese. Più recentemente, intervenendo a “L’Aria che tira” (La7), Tescaroli ha descritto “una realtà criminale variegata, con plurimi gruppi e vocazione all’intimidazione mafiosa”, a lungo “sottovalutata”. Ha parlato di un vero “sistema Prato”, in cui “gran parte del sistema economico è retta da imprese nell’illegalità” e “i movimenti di denaro sono enormi: miliardi e miliardi di euro”.
C’è però anche un segnale positivo: dal febbraio 2025, sessanta lavoratori di diverse comunità hanno iniziato a denunciare senza oneri economici e con tutele effettive; sono già partite venti richieste di permesso di soggiorno e, in vari casi, sono state attivate misure di protezione. Un passo avanti che fa sperare nel contrasto al caporalato, allo sfruttamento nel tessile e nel manifatturiero e, soprattutto, agli interessi economici mafiosi, cinesi e non solo.
Qualche mese fa, sempre Tescaroli, parlando del fenomeno legato all’imprenditoria cinese, ha ribadito come sia diventato “un pericolo concreto”. Già “nelle carte del maxiprocesso di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” comparivano traffici che collegavano Bangkok, Roma e Palermo; poi, a cavallo tra anni ‘90 e 2000, arrivarono i primi riconoscimenti giudiziari della mafia cinese in Italia (Cassazione 2001 e sentenze romane su estorsioni, tratta, sfruttamento lavorativo). Da allora il quadro si è strutturato: gruppi come Green Dragon, Black Society e Red Sun si muovono tra Italia ed Europa, spesso in sinergia con ‘Ndrangheta, Sacra Corona Unita e reti albanesi, tenuti insieme dalla trait d’union del denaro: riciclaggio, narcotraffico e un sistema bancario parallelo, opaco e non tracciabile.
Non sorprende, dunque, che col tempo si sia consolidato anche il cosiddetto “Chinese Underground Bank System”. Si tratta di una rete che consente di spostare ingenti somme di denaro all’estero aggirando i controlli, anche grazie a triangolazioni tra società fittizie e false operazioni commerciali. Scavando a fondo in questo sistema, purtroppo, ci si imbatte anche nel noto ‘Regime 42’ dell’Unione Europea: una norma che sospende l’Iva sulle importazioni e che viene sfruttata per far transitare merci mai spedite e fatture false, generando un flusso continuo di capitali sottratti a ogni tracciamento.
Foto © Paolo Bassani
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