Le parole dello storico israeliano a La Stampa: “Il sionismo è un progetto coloniale che considera la popolazione indigena un problema da rimuovere o eliminare”
Per Ilan Pappé, Israele sta attraversando una crisi politica, morale e istituzionale che segna “la fine di un capitolo della sua storia: l’inizio della fine del progetto sionista”. Storico israeliano di fama internazionale, tra le voci più influenti dei cosiddetti “nuovi storici”, Pappé insegna all’Università di Exeter, dove dirige lo European Center for Palestinian Studies. Dopo il celebre La pulizia etnica dei palestinesi (2006), torna con un nuovo libro – La fine di Israele, in uscita in Italia il 7 ottobre – in cui affronta con lucidità e durezza la crisi profonda del sionismo contemporaneo.
Intervistato da La Stampa, Pappé parte dall’attualità, dal piano di pace proposto da Donald Trump per il “dopo Gaza”: "Il piano di Trump ha tutte le caratteristiche delle proposte di pace del passato e dei processi falliti finora. La prima: nessuno parla con i palestinesi. Tutti dicono loro quale dovrebbe essere il futuro della Palestina senza capire che ogni proposta che non sia discussa con i palestinesi è destinata a fallire. E anche questa fallirà". Per lo storico, non si tratta di un’iniziativa diplomatica reale, ma di un’operazione di facciata: "In parte è una messa in scena, in parte un gioco, in parte il modo di Trump di pensare che tutto sia un problema di business. Ma non affronterà mai la questione alla radice: l’incapacità degli israeliani di accettare i palestinesi come cittadini con pari diritti".
Benjamin Netanyahu e Donald Trump © Imagoeconomica
Da storico, Pappé osserva i segni di un cambiamento irreversibile: "L’Israele per come lo vediamo oggi non può sopravvivere a lungo, perché stiamo vivendo la fine di un capitolo della storia del Sionismo. È già sotto i nostri occhi". Il sionismo, spiega, è diventato “un progetto coloniale volto a costituire uno Stato europeo nel mondo arabo, a spese dei palestinesi”. Un progetto che si è potuto mantenere solo attraverso “la forza, la pulizia etnica e, col tempo, l’ideologia di apartheid”.
Alla base della crisi, per Pappé, c’è un cortocircuito identitario: "Il sionismo ha cercato di definire l’ebraismo come nazionalismo. Dopo ottant’anni sappiamo che non funziona. È come se fosse impossibile parlare del cristianesimo o dell’islam come nazionalità. Il risultato è che ora ebrei laici e religiosi trovano impossibile accordarsi su cosa significhi essere ebrei". Questo conflitto “non è solo individuale ma collettivo, e riguarda il carattere stesso dello Stato: deve essere teocratico o moderno?".
La frattura, spiega Pappé, è oggi visibile nella società israeliana e nella stessa struttura dello Stato. "Parlo dello Stato di Giudea, il tipo di Stato alternativo rispetto all’attuale Stato di Israele che è emerso negli insediamenti in Cisgiordania, ma che si è diffuso in tutto Israele. Lo Stato di Giudea sta inghiottendo lo Stato di Israele". Secondo Pappé, questa nuova entità – nazional-religiosa e messianica – “ha già una presenza dominante in politica, nei servizi di sicurezza, nell’esercito e nei media”. "L’ultimo bastione da conquistare è la Corte Suprema, e sono sulla strada per farlo. Hanno già il parlamento e il governo".
La crisi non è solo politica, ma anche culturale e morale. "Il Dna del progetto sionista è un progetto coloniale di insediamento che ritiene che la popolazione indigena nativa sia un problema da risolvere, di solito rimuovendola o eliminandola". Tutto il sistema educativo e mediatico israeliano, spiega Pappé, è pervaso da questa impostazione: "Gli israeliani vengono indottrinati a pensare ai palestinesi come esseri umani inferiori, come un problema demografico, come un ostacolo alla loro sicurezza. Se ci pensa, è davvero notevole che dopo 120 anni di presenza sionista in Palestina, il 99% degli ebrei israeliani non conosca l’arabo".
L'IDF in azione nella Striscia di Gaza © Imagoecnomica
Oggi, però, la narrazione storica sionista è sempre più messa in discussione anche sul piano accademico. "Negli ultimi venti o trent’anni quella che sembrava essere una posizione ideologica palestinese – la memoria della Nakba – è stata supportata dalla ricerca. Oggi i ricercatori sono d’accordo che nel 1948 si sia verificato un crimine contro l’umanità. E le affermazioni secondo cui Israele non è una democrazia sono corroborate da Human Rights Watch, Amnesty International, la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Penale Internazionale".
Quanto alla sinistra israeliana, Pappé è impietoso: "La sinistra sionista funziona a malapena. Non si può essere un colonizzatore di sinistra. La sinistra antisionista è coraggiosa, ma minoritaria. Sono gli unici che manifestano contro la guerra perché a Gaza è in corso un genocidio". La cosiddetta élite liberale, aggiunge, “invece di combattere ha deciso di lasciare il paese. I Kaplanisti di Tel Aviv vogliono solo continuare la loro vita privilegiata, ma non hanno una visione alternativa allo Stato di Giudea. E per questo credo che perderanno, o forse hanno già perso".
Il futuro non può essere nei “ritocchi” alla soluzione dei due Stati, ma in un processo di decolonizzazione: "È l’unico quadro morale e politico duraturo. Dalla decolonizzazione può nascere un percorso di giustizia riparativa, risarcimenti, riparazioni". Sa che molti considerano questa prospettiva utopica: "Forse lo è. Ma le utopie possono dare un orientamento. I processi di disgregazione sono già cominciati: il crollo degli Stati può essere lento, poi improvvisamente accelerare".
E conclude con una riflessione amara ma lucida: "Uno Stato che lancia bombe in Qatar, in Yemen, che occupa parte della Siria e del Libano, che commette un genocidio a Gaza, è uno Stato che non può che generare ostilità e alienazione. Israele sta alienando tutti, anche molti amici. È qualcosa con cui gli israeliani devono cominciare a fare i conti".
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