La borsa di Paolo Borsellino, accartocciata dall’esplosione in cui il magistrato fu ucciso insieme alla sua scorta, è stata esposta solennemente in una teca alla Camera dei deputati. È un omaggio dello Stato che però, a saper guardare, si trasforma nel suo contrario: un impietoso atto d’accusa allo Stato, l’esposizione di un trofeo dell’antistato. Quello che c’è e si vede – la borsa – rimanda a quello che non c’è e non si può vedere – l’agenda rossa – che è stata sottratta da quella borsa da uomini dello Stato e ancora oggi, 33 anni dopo, è tenuta nascosta con i suoi segreti. Quella presenza dentro la teca evoca un’assenza. Il contenente richiama inesorabilmente il contenuto, scomparso, diventando una silenziosa ma eloquente requisitoria.
Le reliquie dei santi sono esibite dalla Chiesa cattolica come il segno di una presenza oltre la morte, di una vittoria della collettività che è restata viva e attiva dopo il martirio. La reliquia civile della borsa trovata in via D’Amelio è invece segno di un vuoto, di una sconfitta, di una beffa alla verità. Quella teca di cristallo è il monumento al più colossale depistaggio della storia repubblicana, con cui è stata costruita una falsa pista, esibito un falso colpevole, dichiarato un movente rassicurante (solo mafia, o tutt’al più solo mafia e appalti). Attorno, volteggiano poliziotti, ufficiali dei carabinieri, agenti segreti, magistrati più fedeli a obbedienze massoniche che alla Costituzione.
I monumenti si innalzano quando si vuole chiudere una stagione, ritenere terminata una fase, dichiarare vinta una lotta per la legalità e la verità. Sulle stragi del 1992-93 non c’è niente di chiuso, nulla di terminato: la verità è una borsa vuota, esibita lì in Parlamento come una rassicurazione, mentre è un monumento al depistaggio, eterno ingrediente della storia italiana fatta di bombe e doppi giuramenti, di eserciti segreti e logge riservate, di “deviazioni” che sono il comodo scudo per apparati che semplicemente perseguono con terribile efficacia il loro scopo d’istituto, dimenticando la Costituzione.
La trattativa tra lo Stato e la mafia, l’utilizzo delle mafie da parte dello Stato, l’intreccio tra boss, neofascisti e logge restano capitoli di un libro da bruciare, da nascondere, da dimenticare come l’agenda rossa di Paolo Borsellino, malgrado la condanna definitiva per la strage di Bologna di Paolo Bellini, neofascista, amico dei boss e pedina di apparati dello Stato, sia un’ulteriore scossa contro la Grande Rimozione in corso, contro il tranquillo revisionismo che si afferma su certi giornali e in certe commissioni parlamentari.
La presidente dell’Antimafia si fa ritrarre in foto con Luigi Ciavardini, in quanto detenuto che lavora per il reinserimento dei detenuti, ma anche terrorista nero condannato definitivo per la strage di Bologna (come Bellini, come Gilberto Cavallini, come Giusva Fioravanti, come Francesca Mambro). Guida la commissione parlamentare facendosi ispirare dal generale Mario Mori e mettendo in un angolo Roberto Scarpinato, che denuncia un vero e proprio “depistaggio istituzionale”.
Il giorno dell’ostensione della borsa, Giorgia Meloni ha ripetuto che la nascita del suo impegno politico è coincisa con la morte di Borsellino. È bello che una passione politica – di destra o di sinistra non importa – sia innescata dall’ammirazione per un grande e intelligente combattente antimafia. Speriamo che ora seguano i fatti, dentro il governo e dentro la commissione, altrimenti qualcuno potrebbe pensare che quell’ammirazione della giovane Giorgia non era per l’eroe dell’antimafia sopra le parti, ma per “uno dei nostri”, l’uomo che in gioventù era iscritto al Fuan, l’organizzazione universitaria del Msi, parte della “comunità politica” da cui Meloni si dice fiera di provenire. Se fosse così, vorrebbe dire che la memoria di Borsellino, mai uomo di parte, non è onorata, ma sequestrata.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano
Foto © Imagoeconomica
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