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Lo storico intervento del professore e politologo ebreo all’Università di Waterloo in Canada 

Se Israele avesse una lista nera degli intellettuali considerati nemici pubblici, Norman Finkelstein occuperebbe senza dubbio il primo posto. È una figura bersagliata da critiche e odio da parte dei sionisti per due ragioni principali: è il critico più autorevole e coraggioso della teoria razzista e delle pratiche sempre più brutali di Israele e, aspetto ancora più grave, è un ebreo i cui genitori sono sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti. Quest’ultimo elemento rappresenta il suo crimine più imperdonabile agli occhi di uno Stato fondato sull’identità ebraica. L’ebraicità di Finkelstein è già di per sé irritante per i sostenitori di Israele, ma il suo legame diretto con i sopravvissuti all’Olocausto è considerato inaccettabile.
La sua opposizione alla guerra in Libano del 1982 segnò un punto di svolta, mettendo Finkelstein in rotta di collisione con la deriva sempre più violenta dello Stato ebraico. Israele giustifica la propria esistenza e il proprio diritto a esercitare violenza richiamandosi a un’ostilità eterna dei non ebrei verso gli ebrei, che necessiterebbero della protezione di uno Stato nazionale. Inoltre, basa la legittimità delle proprie azioni sulla sofferenza patita dagli ebrei europei durante l’Olocausto.
In un contesto come quello attuale, segnato dal genocidio del popolo palestinese a Gaza e da una nuova guerra contro l’Iran, le parole di Finkelstein risuonano con particolare forza. Nel 2010, durante una lezione presso l’Università di Waterloo in Canada, Finkelstein rispose a una studentessa tedesca che aveva espresso disagio per il modo in cui parlava dei nazisti e dell’Olocausto. Il discorso, documentato nel film American Radical: The Trials of Norman Finkelstein (2009), è un potente atto d’accusa:
Mio padre fu nel campo di concentramento di Auschwitz. Mia madre fu nel campo di concentramento di Majdanek. Ogni singolo membro della mia famiglia, da entrambi i lati, fu sterminato. Entrambi i miei genitori parteciparono alla rivolta del Ghetto di Varsavia. Ed è precisamente e esattamente per via delle lezioni che i miei genitori hanno insegnato a me e ai miei due fratelli che io non starò in silenzio quando Israele commette i suoi crimini contro i palestinesi. E non considero nulla di più spregevole dell’usare la loro sofferenza e il loro martirio per cercare di giustificare la tortura, la brutalizzazione, la demolizione di case che Israele compie quotidianamente contro i palestinesi. Quindi, mi rifiuto di essere ulteriormente intimidito o zittito da queste lacrime. Se aveste un briciolo di cuore, piangereste per i palestinesi, non per Washington".


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Si può paragonare il bombardamento dell’Iran o il genocidio di Gaza ai campi di sterminio nazisti?
Secondo Finkelstein, autore del libro L’industria dell’Olocausto, esiste un meccanismo che sfrutta la memoria di quel genocidio per giustificare le azioni di Israele. L’Olocausto, sostiene, è come un conto bancario inesauribile di orrori, da cui Israele attinge per legittimare, in modo apparentemente “democratico” e con un velo di dolore, le sofferenze inflitte al popolo palestinese e non solo.
Finkelstein rappresenta una sfida non solo per la forza dei suoi argomenti e la profondità della sua conoscenza storica, ma anche perché, in quanto figlio di sopravvissuti all’Olocausto, incarna un’eredità che Israele vorrebbe monopolizzare. Sebbene oggi possa sembrare isolato — è stato espulso da due università statunitensi e deportato da Israele — la sua posizione si inserisce in una lunga tradizione di intellettuali ebrei progressisti e anticapitalisti, come il suo mentore Noam Chomsky. Se si considerasse un sondaggio sugli intellettuali ebrei degli ultimi cento anni, i sionisti, non Finkelstein, risulterebbero in minoranza. La sua voce, radicata nella storia personale e nella lotta per la giustizia, continua a sfidare il silenzio e l’indifferenza. Recentemente, in un’intervista ad Al Jazeera, ha ribadito che Israele sta commettendo un genocidio in Gaza, non una guerra. Sottolineare che questa è l’opinione è di ogni organizzazione umanitaria nel mondo. “Non è più un tema questionabile”, afferma. “Non resta nulla di Gaza”. E i giornali liberali stanno riscrivendo la storia”.   

Foto di copertina © Miguel de Icaza

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