Oltre due anni di guerre e genocidi che avrebbero dovuto rendere Israele più forte e più sicuro, al contrario, stanno trascinando il Paese e il mondo intero sulla via del baratro.
Nelle ultime ore dopo i devastanti raid israeliani del 13 giugno che hanno colpito oltre 100 obiettivi strategici in Iran, inclusi siti nucleari e basi militari, Teheran ha risposto con un’ondata di missili, colpendo diverse città israeliane, tra cui Ramat Gan. Almeno quattro israeliani sono morti e circa 200 feriti. Al contempo, il bilancio iraniano parla di 78 morti e oltre 320 feriti, tra cui civili e alti ufficiali militari.
L’ex impero persiano, secondo quanto annunciato dai leader iraniani citati da The Hill, ha inoltre annunciato di non avere più intenzione di impegnarsi nei colloqui sul nucleare con gli Stati Uniti, programmati per domenica in Oman.
Con l’Operazione Rising Lion contro Netanyahu ha deciso di giocarsi il tutto per tutto, incalzato dalla crisi di governo, prossimo a cadere a causa del disaccordo sulla legge di coscrizione obbligatoria per gli uomini ultraortodossi. L’obiettivo rappresenta la consacrazione del progetto sionista dopo 45 anni di ostilità: lo sgretolamento definitivo di quell’Asse della resistenza, quella Mezzaluna sciita che rappresenta il suo principale antagonista in un Medio Oriente che, con la caduta degli ayatollah, verrebbe totalmente ridisegnato.
"Mentre alcuni funzionari israeliani sostengono che questi attacchi miravano a rafforzare l'influenza degli Stati Uniti sulla via diplomatica, è chiaro che la loro tempistica e la loro natura su larga scala avevano lo scopo di far fallire completamente i colloqui", sostiene, nel merito, Ellie Geranmayeh, vicedirettrice del programma per il Medio Oriente e il Nord Africa presso l'European Council on Foreign Relations.
Al contrario, l’esperto nucleare statunitense Jim Walsh afferma di aspettarsi continui scontri a fuoco tra Israele e Iran nei prossimi giorni, con la possibilità che le autorità iraniane si decidano a perseguire lo sviluppo dell'arma nucleare. "Per 20 anni, si sono rifiutati di oltrepassare quel limite", ha detto Walsh ad Al Jazeera. L’attacco di Israele non farà altro che rafforzare questa eventualità.
Trump è stato messo sotto scacco e rimesso al suo posto dall’eventualità di siglare un accordo nucleare con Teheran, che aveva visto delle aperture nella misura di un arricchimento per un utilizzo civile, escludendo qualsiasi sviluppo dell’ordigno atomico.
Il 12 giugno 2025, l'AIEA ha approvato una risoluzione che accusa l’Iran di violare gli obblighi di non proliferazione nucleare. Nello stesso momento, l’intelligence iraniana ha diffuso documenti che accusano il direttore dell’AIEA, Rafael Grossi, di aver collaborato segretamente con Israele per politicizzare il controllo sul programma nucleare iraniano. Il tycoon, completamente assoggettato all’entità sionista, ha fornito supporto militare per l’attacco del 13 giugno.
Il sito Axios, citando fonti della Casa Bianca sostiene che, fino a poche ore prima dei raid israeliani, Trump avrebbe detto a Netanyahu di non far nulla che potesse far “saltare” le possibilità di un accordo.
D’altra parte, due funzionari israeliani precisano che i raid sarebbero stati completamente coordinati con Washington e che Trump era d’accordo, anche se pubblicamente si opponeva.
In questa versione dei fatti, il disaccordo sarebbe stato un diversivo per dare ai vertici militari e gli scienziati nucleari, l’impressione di essere al sicuro.
La tournee diplomatica del miliardario newyorchese che aveva strappato accordi da 600 miliardi con l'Arabia Saudita, 1,2 trilioni con il Qatar per 1,2 trilioni di dollari, e 200 miliardi con gli Emirati, è ora completamente compromessa. Gli Stati del Golfo, a differenza degli anni precedenti, si oppongono alle azioni militari di Israele, preoccupate dalla possibile destabilizzazione innescata dalla fazione alawita, ben radicata in Yemen.
Nel frattempo l’obiettivo principale degli attacchi iraniani, ovvero i siti nucleari dell’ex impero persiano, non sembrano essere stati irreversibilmente scalfito. Secondo quanto riporta il New York Times, infatti, la maggior parte del programma nucleare iraniano resta intatto anche dopo i raid: non è stato colpito, infatti, il più probabile deposito di combustibile nucleare, che si trova al di fuori dell’antica capitale Isfahan. Rafael Grossi, a questo proposito ha commentato che “gli impianti sotterranei di arricchimento dell'Iran a Natanz rimangono intatti, solo gli impianti di superficie sono stati distrutti". Teheran, attraverso il portavoce dell’agenzia atomica nazionale, conferma che il sito di arricchimento di Fordow ha subito solo “danni limitati ad alcune aree”: “Avevamo già spostato una parte significativa delle attrezzature e dei materiali, e non ci sono stati danni estesi e non ci sono preoccupazioni di contaminazione”.
Ora l’intero medio oriente continua ad infiammarsi. Il Pakistan ha espresso il suo pieno sostegno all'Iran e ha chiesto "l'unità musulmana contro Israele". "Siamo al fianco dell'Iran e lo sosterremo in ogni forum internazionale per proteggere i suoi interessi", ha affermato il ministro della Difesa pakistano Khawaja Asif durante il suo discorso all'assemblea nazionale.
Al contempo, secondo quanto riportato dai media locali che citano le dichiarazioni di Esmail Kosari, membro della commissione per la sicurezza del parlamento, l'Iran starebbe seriamente valutando la chiusura dello Stretto di Hormuz, una zona strategica.
Lo Stretto di Hormuz, che si trova tra l'Oman e l'Iran, è il punto di accesso più importante al mondo per il trasporto di petrolio. Anche solo il solo accenno a una mossa del genere ha già provocato onde d'urto sui mercati globali, con un conseguente aumento del prezzo del petrolio.
Si tratterebbe di uno dei rischi geopolitici più significativi per l'economia globale, con implicazioni devastanti che si estenderebbero ben oltre i mercati energetici. Questo strategico collo di bottiglia, attraversato quotidianamente da circa 20 milioni di barili di petrolio e derivati, costituisce il 21% del consumo mondiale di greggio e il 20% del commercio globale di gas naturale liquefatto.
In caso di blocco temporaneo dello stretto, gli analisti di JP Morgan prevedono che i prezzi del petrolio potrebbero salire fino a 120-130 dollari al barile, quasi il doppio delle attuali quotazioni. Un aumento di 20 dollari al barile comporterebbe conseguenze immediate per l'economia globale.
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