L’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario, meglio noto come “carcere duro”, rappresenta uno dei pilastri della lotta alla criminalità organizzata in Italia. Nel podcast di approfondimento Nero su Bianco editato da ANTIMAFIADuemila raccontiamo la sua storia e il suo scopo primario, spezzare il potere dei boss mafiosi e impedire loro di comandare dalle carceri, questo regime speciale è stato al centro di battaglie giudiziarie, successi investigativi e controversie. A oltre trent’anni dalla sua introduzione, il 41-bis rimane uno strumento indispensabile ma non privo di ombre, come dimostrano le recenti evoluzioni normative e le critiche sollevate da magistrati e associazioni antimafia.
Il 41-bis prende forma in un’Italia sconvolta dalla violenza di Cosa nostra. Prima del 1992, le carceri erano per i mafiosi un “incidente di percorso”: dal “Grand Hotel Ucciardone” di Palermo, i boss continuavano a impartire ordini tramite pizzini, corruzione o persino lussi come champagne e aragoste. La necessità di un regime speciale si fece urgente con le stragi di Capaci (23 maggio 1992), che costarono la vita a Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la scorta, e di via d’Amelio (19 luglio 1992), dove fu assassinato Paolo Borsellino.
Fu in questo contesto di emergenza che nacque il decreto Scotti-Martelli (Decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella Legge 7 agosto 1992, n. 356), fortemente voluto dai ministri Vincenzo Scotti (Interni) e Claudio Martelli (Giustizia), con il contributo dello stesso Falcone, allora Direttore Generale degli Affari Penali. Il decreto introdusse misure incisive: il “carcere duro” per isolare i boss, incentivi per i collaboratori di giustizia, inasprimento delle pene e potenziamento delle indagini, come l’estensione a un anno delle indagini preliminari per reati di mafia e l’autorizzazione per la polizia giudiziaria a riferire immediatamente le notizie di reato.
Il 41-bis, già previsto dalla legge Gozzini del 1986 per emergenze carcerarie e terrorismo, fu adattato per colpire specificamente i mafiosi, con l’obiettivo di interrompere i loro collegamenti con l’esterno. Le restrizioni includevano isolamento in celle singole, colloqui limitati (uno al mese, spesso con vetro divisorio), censura della corrispondenza e divieto di contatti con altri detenuti, spesso in carceri insulari come Pianosa e Asinara.
Non si tratta di vendetta, ma di un regime differenziato per impedire ai boss di continuare a comandare. La possibilità di uscire dal 41-bis collaborando con la giustizia è un elemento chiave: rompe il vincolo di omertà e indebolisce le organizzazioni dall’interno.
Negli ultimi anni, il 41-bis ha mostrato alcune crepe. Nel 2019, la scoperta di tre cellulari in possesso di un boss nel carcere di Parma ha evidenziato falle nei controlli, mettendo a rischio l’efficacia del regime. Nello stesso anno, la sentenza n. 253/2019 della Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto assoluto di benefici penitenziari per i detenuti non collaboranti, imponendo valutazioni caso per caso. Sebbene questa decisione miri a bilanciare rieducazione e sicurezza, ha suscitato allarme tra magistrati e associazioni antimafia, che temono un’interpretazione troppo permissiva.
Le scarcerazioni di boss durante l’emergenza Covid-19 nel 2020, come quella di Francesco Bonura, hanno ulteriormente acceso il dibattito.
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