In Plaza de Mayo mezzo milione di persone fanno memoria dei crimini della giunta. Cori e insulti al fascismo e alle politiche ultra-liberiste del governo
Buenos Aires. E’ il 24 marzo. Tutta l’Argentina ricorda quella drammatica giornata del colpo di Stato con cui le forze armate guidate da Jorge Rafael Videla presero il potere nel paese instaurando una delle dittature più abominevoli della storia. Qui la definiscono “dittatura civico-militare-ecclesiastica” come a sottolineare il fatto che a contribuire, con complicità latente e patto di silenzio, al baratro dell’intera nazione non furono soltanto “los milicos” (i militari) ma una fetta intera della società, chiesa inclusa. Una frattura mai del tutto sanata e della quale tuttora, soprattutto oggi, se ne percepisce il riverbero sinistro. Il 24 marzo in Argentina, specialmente a Buenos Aires, è una data molto sentita. E’ il giorno della memoria. Come ogni anno centinaia di migliaia di persone si sono ritrovate “en Capital” per marciare insieme verso Plaza de Mayo e chiedere verità e giustizia al grido “nunca más!” (Mai più). Cittadini comuni, studenti, lavoratori, pensionati (che in questa fase storica di politica di austerity del governo Milei stanno avendo un ruolo determinante) e ancora collettivi, artisti, sindacati, comunità indigene Mapuche. E poi loro, i sopravvissuti ai centri clandestini di sterminio e le madri e le nonne di Plaza de Mayo. Donne indomite, colonne portanti della democrazia, che da 49 anni gridano, proprio da Plaza de Mayo, sfidando il potere davanti alla Casa Rosada (la sede presidenziale), per sapere che fine hanno fatto i loro figli e i loro nipoti inghiottiti dal regime. Sono i desaparecidos e “son trentamil” (sono trentamila) ci tengono a specificare, specialmente dalla salita al potere di Javier Milei che sta conducendo una campagna revisionista e negazionista sui crimini commessi in dittatura e perfino sul numero dei tanti giovani scomparsi, molti di questi donne incinte i cui figli sono stati rapiti e affidati a famiglie dei militari o a famiglie vicine alla giunta. Un dramma unico al mondo. Il 24 marzo un fiume di gente ha invaso le arterie principali di Buenos Aires colorandola di balli, cori, musica. “Memoria y castigo” (memoria e condanna) sono i due stendardi impugnati dai serpentoni che hanno sfilato nella Capitale verso Plaza de Mayo. “Memoria” per i 30mila desaparecidos durante il terrorismo di Stato, per le torture e per le esecuzioni.
“Castigo” per i repressori (“genocidas”, li chiamano) della dittatura ancora in libertà (alcuni sono latitanti all’estero, come in Italia, altri sono in patria e siedono ai vertici delle istituzioni o possiedono società private) appartenenti all’esercito come alla Marina, all’areonautica, alla polizia politica (Triple A) ai servizi (SIDE). Forze armate diverse che hanno agito in combutta per almeno otto anni (1976-1983) nel quadro terroristico-eversivo internazionale del “Plan condor”, un piano della CIA americana con cui a partire dal 1954 (il primo paese fu il Paraguay di Alfredo Stroessner) vennero instaurate feroci dittature con lo scopo di arrestare il vento riformista di sinistra che stava soffiando su tutto il Sudamerica. Per questo il 24 marzo è sempre un giorno di lotta e di partecipazione popolare. Cori, coreografie, il ritmo costante dei “bombos”, striscioni, bandiere di ogni tipo e “parrillas” (grigliate) ai lati dei marciapiedi sono lo sfondo che caratterizza questa giornata da decenni. L’anima profonda dell’Argentina sgorga da queste strade della capitale per confluire, come affluenti nel mare, verso Plaza de Mayo, lì dove ad attendere i serpentoni ci sono le madri e le nonne dei desaparecidos. Loro che rischiando la vita puntarono il dito contro la giunta ritrovandosi nella piazza ogni giovedì da 49 anni durante “la ronda” con cui chiedevano la restituzione dei loro cari e l’apertura degli archivi. Quest’anima popolare chiede con forza verità e giustizia per i crimini compiuti in dittatura e per quelli compiuti anche “in democrazia” (si intende nei governi post-dittatura) come nei casi di Julio Lopez (sopravvissuto ai centri clandestini) o Santiago Maldonado. Il primo desaparecido nel 2006 durante il governo di Néstor Kirchner, il secondo più di recente nel 2017 durante il governo di Mauricio Macri e ritrovato senza vita dopo quasi tre mesi. “No olvidamos, no perdonamos, no nos reconciliamos” (non dimentichiamo, non perdoniamo, non ci riconciliamo) dicono le organizzatrici dal palco, tutte donne, ricordando i 30mila. Dietro di loro siedono sulla sedia a rotelle, in fila, le madri e le nonne di Plaza de Mayo, amatissime dal popolo in piazza, che nonostante la loro età avanzata (alcune di loro hanno più di 90 anni) non cessano di lottare ancora oggi sfidando il potere proprio come allora.
“Continuiamo a chiedere processo e condanna a tutti i responsabili e ai complici civili”, afferma Elia Espen (93 anni), una delle ultime della “Linea Fundadora”, il cui figlio Hugo scomparve il 18 febbraio 1977. “Basta domiciliari per i genocida. Che si aprano gli archivi di Stato dal 1974 al 1983 per poter avanzare con le indagini sui responsabili di questi crimini. Continuiamo a pretendere che ci dicano dove sono (“Donde estàn?”)”, dice con la voce tremolante per la vecchiaia mentre sotto di lei i manifestanti facevano scorrere sulle proprie teste lo striscione lunghissimo con i volti dei 30mila. “Basta con il negazionismo e con l’apologia del genocidio perpetrato dal governo nazionale e dalla vicepresidente Villaruel”, ha aggiunto Taty Almeida, il cui figlio fu sequestrato dalla Triple A nel '75, scagliandosi contro la vice presidente del Paese Victoria Villaruel, figlia di un militare della dittatura condannato all’ergastolo e considerata vicina ai membri della giunta. Almeida ha poi denunciato il tentativo di smantellamento degli ex centri clandestini di tortura e sterminio (furono circa 800 durante la dittatura), recuperati a fatica con il ritorno della democrazia e molti di questi affidati a familiari dei desaparecidos o associazioni per i diritti umani che li hanno trasformati in centri di memoria. Il governo Milei, infatti, tra le varie politiche di austerity ha anche tagliato i finanziamenti statali a questi centri che ora rischiano di chiudere. L’obiettivo è infatti quello di cancellare la storia, per questo la testimonianza delle Madri è preziosissima. Insieme a Taty Almeida ha preso parola Estela de Carlotto, alla quale “los gruppo de tareas” (squadroni della morte) hanno strappato la figlia incinta, Laura, nel novembre 1977 e il nipote nato “en cautiverio” (in clandestinità), che ha ricordato gli ultimi successi delle madri nel ritrovamento dell’identità di due nuovi “nipoti” il 138esimo e il 139esimo che non avevano mai sospettato delle loro origini. “Necessitiamo dell’aiuto di tutta la società per trovarli, non è mai tardi”, esclama invitando chiunque sia a conoscenza di informazioni di avvicinarsi alle madri per riuscire ad individuare gli altri “nipoti” (in totale il regime se ne appropriò di circa 500). Il 24 marzo non è stato - e non lo è mai - solo un giorno di memoria. Dalle strade, dalla piazza e dal palco sono ricorrenti i fischi e gli insulti contro l’esecutivo, a partire dal presidente, dalla sua vice e dalla ministra della Sicurezza Patricia Bullrich, ritenuta vicina ai repressori detenuti. “Milei basura, vos sos la dictaudra" ("Milei spazzatura, sei la dittatura”), è uno dei cori ricorrenti dei manifestanti.
Ma non c’è solo il sentimento nostalgico per il regime - a cui si aggiungono frequenti episodi di repressione - a indignare Las Madres e il mezzo milione di persone venute da tutta l’Argentina per questa giornata. C’è anche lo smantellamento del welfare in un paese già in ginocchio per l’inflazione, con il 52.9% della popolazione che vive sotto la soglia di povertà. Il governo ultra-liberista guidato dal partito La Libertad Avanza (LLA) ha infatti chiuso tredici ministeri, ridotto i fondi a sanità e istruzione, avviato una campagna di privatizzazioni, rimandato a casa circa 30mila dipendenti statali e tagliato drasticamente le pensioni. Recentemente un numero sempre maggiore di pensionati (“jubilados”) hanno infatti cominciato a protestare pacificamente davanti al Congresso - insieme a lavoratori, sindacati e associazioni del terzo settore - e mercoledì 12 marzo sono stati duramente repressi dalla Gendarmeria e dalla Polizia. Nella repressione è rimasto gravemente ferito Pablo Grillo, un giovane fotoreporter, colpito in testa da un lacrimogeno sparato ad altezza uomo dalla polizia. Sul palco del 24 marzo, accanto alle Madri di Plaza de Mayo, era presente anche suo padre e la folla ha dato tutto il proprio calore al ragazzo, da poco risvegliatosi dal coma. In Argentina c’è tanta paura, il pericolo di un ritorno al baratro non è mai stato così vicino. La gente lo sa, come lo sanno i sopravvissuti e “Las Madres” che ogni anno sono sempre di meno (l'anno scorso abbiamo salutato Nora Cortiñas, co-fondatrice de "Las Madres de Plaza de Mayo"). Ecco perché l’ultima “marcha” è stata molto sentita. Quel “Nunca màs” urlato dalle strade, oggi, con il governo in carica, assume un significato ancor più concreto. “A Milei e Villaruel diciamo: ‘El pueblo unido jamàs serà vencido’”, urlano dal palco le organizzatrici prima di chiudere la manifestazione. Parte il coro della piazza che va a infrangersi contro le finestre della Casa Rosada dove però Javier Milei, ovviamente, è assente. “Presentes” (presenti) sono invece i “30mil detenidos desaparecidos”. E’ un altro dei cori iconici di questa giornata urlati a squarciagola. Ripetuto all’infinito, come un mantra, lungo tutto il corteo, scritto sui muri, sugli striscioni, sulle magliette, il coro si chiude con un verbo al tempo futuro: “Venceremos!” (Vinceremo!)). “La marcha” finisce così, con un inno alla vita e alla resistenza del popolo, di quelli che non hanno dimenticato e di quelli che non si arrendono. Mentre i bandieroni vengono arrotolati e la bolgia di manifestanti comincia, a poco a poco e a fatica, ad avviarsi verso casa ci fermiamo a parlare con uno dei sopravvissuti ai centri di tortura. “Finché c’è memoria, c’è speranza”, dice.
Foto © Nicko Pereiro
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