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L’ex magistrato ad ANTIMAFIADuemila: “Chi parla non ha idea di quello che pensava Giovanni”

C'è una grande partita che si sta giocando a danno dei cittadini. Al congresso di Forza Italia di ieri che si è tenuto qua a Palermo hanno fatto sentire un audio del dottore Falcone in cui lo utilizzano, volgarmente parlando, come foglia di fico per avallare la riforma della separazione delle carriere, parole palesemente travisate.
La gente, per quello che apprendo, che parla di quello che diceva Falcone, non ha la più pallida idea di quello che era il pensiero di Giovanni Falcone. Questa gente, naturalmente, parla perché ha degli obiettivi da raggiungere.
Ed è gente che magari fino al giorno prima si era espressa negativamente nei confronti di Falcone.
Adesso le sue parole sono diventate un Vangelo, anche per queste persone che fino al giorno prima avevano attaccato il concorso esterno e il 41 bis, che sono state delle norme volute e create da Giovanni Falcone.
Tanto per dirne una, c’è un articolo di Tajani che prese posizione contro Falcone nel ’91, scritta su ‘Il Giornale’.
Il dott. Falcone, innanzitutto, in qualunque discussione non era una persona che amava andare allo scontro. Amava il dialogo costruttivo e, anche se in quell'epoca la separazione delle carriere non era certamente un argomento di attualità, sono certo che, intervenendo in un dibattito, possa non aver preso posizioni di chiusura, anzi possa essersi dichiarato pronto al dialogo, senza alcun preconcetto.
Ma una cosa è certa: parlando del processo penale e quindi del suo lavoro, la base di tutte le sue idee era una sola, quella di rendere il lavoro sempre più professionale, sempre più incisivo nella lotta al malaffare.
Sotto questo aspetto la separazione delle carriere non serviva allora assolutamente a nulla, come non servirebbe oggi.
Con l'entrata in vigore del nuovo codice, la competenza delle indagini è passata dal giudice istruttore, come fu Giovanni Falcone, al pubblico ministero, che precedentemente non le aveva mai condotte, limitandosi a formulare conclusioni sulla base del lavoro del giudice istruttore. Il nuovo codice ha trasformato il pubblico ministero nel "dominus" delle indagini, un ruolo inedito, poiché in passato si occupava solo di casi semplici, mentre le grandi indagini erano appannaggio del giudice istruttore. Falcone, divenuto procuratore aggiunto in quel periodo, notò che i pubblici ministeri non sempre erano preparati per questo compito e propose una distinzione nella magistratura tra funzioni investigative e funzioni giudicanti, ritenendo che per le indagini servisse una preparazione specifica, non prevista dagli studi tradizionali.
Era questo che sosteneva: una specializzazione che consentisse a chi voleva fare il lavoro del Pubblico Ministero di farlo adeguatamente.
Falcone aveva questa, diciamo, fissazione sulla specializzazione dei pubblici ministeri e quindi questo suo orientamento si concretizzava non nella separazione delle carriere, ripeto
che non sarebbe servita a nulla, bensì nella separazione delle funzioni e cioè fare in modo che, pur essendo tutti magistrati, provenendo tutti dalla stessa esperienza di studi, di concorso, eccetera, una cosa era fare il giudicante, altra cosa era fare le indagini.


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© Imagoeconomica


Chi parla non ha idea di quelle che erano le idee del dottore Falcone in materia di investigazione, in materia di funzione dei giudici e così via.
Mai ho sentito Falcone sospettare che il giudicante potesse non essere imparziale nelle sue decisioni e quindi propendere a dare ragione sempre al collega pubblico ministero.
Queste sono delle sciocchezze, delle stupidaggini che strumentalmente vengono offerte alla gente.
Il frequente e pretestuoso riferimento a Giovanni Falcone è la prova dell’assoluta mancanza di argomenti tecnicamente validi a sostegno della riforma.
In realtà la separazione delle carriere non si basa su alcuna seria considerazione tecnico-giuridica. A quanto pare la riforma nascerebbe dall’esigenza di evitare che il giudicante, nelle sue decisioni, sia condizionato dal rapporto di generica colleganza che lo lega al pubblico ministero, che lo induce a non essere più imparziale, violando così un suo preciso dovere.  Ma, è del tutto evidente, il giudice che non è imparziale ( che quindi condanna senza le necessarie prove, sol perché il pubblico ministero gli è simpatico in quanto collega ) non può che essere definito un mascalzone. E un mascalzone, come oggi è pronto ad accogliere le richieste, quali che esse siano, del p.m., domani, se amico del difensore dell’imputato, come può ben accadere, sarà pronto ad assolverlo. La tragedia è che la gente, bersagliata da una informazione abilmente pilotata, cade nella trappola, crede a queste stupidaggini e, direi conseguentemente, odia i giudici.
E’ del tutto evidente che la separazione delle carriere – che, come più volte ha ricordato il procuratore Gratteri, non risolve alcuno dei numerosi problemi del processo penale, ben avvertiti dai cittadini – risponde palesemente a due obiettivi: innanzitutto una chiara esibizione di muscoli “qui comando io e faccio quello che voglio, non m’importa se è giusto o no. Anzi, se posso fare un dispetto agli odiati magistrati, meglio ancora. Inoltre, aspetto ancora più grave, costituisce la prima tappa per portare il pubblico ministero alle dirette dipendenze dell’esecutivo.

Ieri Nordio ha pensato di introdurre una norma per mettere sotto procedimento disciplinare quei giudici, quei magistrati che esprimono le proprie opinioni, in particolare per quanto riguarda provvedimenti del governo.
Questa è una vecchia storia. Non vediamo nulla di nuovo. Si sta sostenendo che i magistrati non siano, come tutti gli altri cittadini, liberi di esprimere le proprie idee, poiché criticare un orientamento legislativo potrebbe farli apparire politicamente schierati, compromettendo la loro imparzialità nei vari provvedimenti. Questo approccio, però, è lontano dalla realtà: un conto è avere ed esprimere opinioni personali in modo civile e motivato, diritto di ogni cittadino, altro è il lavoro quotidiano del magistrato, che richiede imparzialità assoluta, indipendentemente dalle proprie idee politiche o da quelle delle persone coinvolte nei procedimenti. Confondere questi aspetti inganna l’opinione pubblica, che meriterebbe invece chiarezza dalla politica.
"Il compito della politica dovrebbe essere quello di instillare nei cittadini fiducia nella giustizia e fare in modo che essi abbiano il massimo rispetto per la stessa, poiché un paese civile deve necessariamente basarsi su questo principio. Già nel diritto romano si sottolineava l’importanza che i cittadini credessero nella giustizia ne cives ad arma ruant,' affinché i cittadini non si facciano giustizia da sé."
Ma per fare questo è necessario spiegare alla gente la complessa macchina della giurisdizione: per esempio è importante spiegare ai cittadini che una sentenza d’appello diversa da quella di primo grado non implica ignoranza o parzialità dei giudici di primo grado, ma riflette la complessità di alcune vicende giudiziarie e il principio del libero convincimento del giudice, vincolato solo da una motivazione adeguata. Far credere che un ribaltamento in appello significhi automaticamente un errore o un’ingiustizia del primo grado è una semplificazione scorretta, che genera sfiducia. La politica, invece, dovrebbe impegnarsi a far comprendere il valore della giustizia come pilastro della democrazia, evitando di alimentare falsi convincimenti.


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Carlo Nordio © Imagoeconomica


Ma la politica in questi ultimi anni ha proprio alimentato la lotta contro la magistratura, danneggiando quindi il cittadino. Mi viene in mente anche l’abolizione dell’abuso d’ufficio.

La maggior parte dei cittadini non può sapere cosa comporta la riforma in materia di abuso d’ufficio: eliminare il reato di abuso d'ufficio significa fare in modo che ormai nel nostro paese la classica, vecchia, storica raccomandazione che tutti sappiamo che cos'è, non costituisce più un reato.
La gente, ad esempio, non ha capito che, se io sono il presidente di una commissione d'esame e, prima dell’esame, ho detto al solito raccomandato le domande che gli farò e vengo scoperto, questo comportamento certamente riprovevole non è più reato.
E lei immagina in una competizione elettorale quanti migliaia, centinaia di migliaia di voti ruotano intorno a favori fatti o soltanto promessi?
Chi governa non può negare che nel nostro paese esiste notoriamente un gigantesco problema di infedeltà della pubblica amministrazione, che emerge da numerose vicende di vita quotidiana. Tuttavia, se si ritiene che l’abuso d’ufficio non sia il miglior strumento di tutela dei cittadini, la sua eliminazione dovrebbe essere accompagnata da una nuova soluzione che garantisca comunque protezione ai cittadini contro gli abusi dei pubblici ufficiali. Non si può semplicemente cancellare il reato senza offrire alternative, lasciando i cittadini senza difese, considerato che la maggior parte delle indagini per abuso d’ufficio proviene proprio dalle denunce di cittadini che chiedono giustizia, lamentando di aver subito soprusi da pubblici ufficiali infedeli.
Con l’abolizione dell’abuso d’ufficio, i cittadini hanno perso una tutela fondamentale contro le ingiustizie della pubblica amministrazione. Anche se dimostrano di essere stati danneggiati da favoritismi e raccomandazioni, non hanno più strumenti legali per ottenere giustizia.


Ultimamente in numerosi interventi pubblici lei ha detto che Palermo non riesce a liberarsi da questa cappa mafiosa, ovviamente dalle figure che già ben conosciamo di condannati per reati di mafia. Quali responsabilità attribuisce, se ci sono, alla classe politica in generale o comunque alla cittadinanza palermitana e non solo.
Io credo che la classe politica abbia delle responsabilità piuttosto evidenti. Perché è noto a tutti come la cittadinanza si adegui ai messaggi della classe politica, dei cosiddetti governanti.
Se dai governanti vengono messaggi dai quali si può desumere chiaramente una indicazione di pacifica convivenza con i soliti ambienti vicini alla mafia, è chiaro che non possiamo pretendere dalla cittadinanza di avere la forza di fare scelte diverse.


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© Imagoeconomica


Se vogliamo sperare che in questa terra qualcosa cambi realmente sotto l'aspetto sociale, i governanti dovrebbero essere i primi a dare l’esempio. Il giorno in cui dovesse accadere che un politico fosse pronto a rinunciare pubblicamente ad essere sponsorizzato da personaggi notoriamente legati ad ambienti mafiosi, con tutti i ben noti facili vantaggi che ne derivano, quello sarebbe un momento decisivo perché i cittadini prenderebbero atto di messaggi di rottura col passato, rottura con la logica del solito compromesso politico-mafioso, comincerebbero ad apprezzare quello che Paolo Borsellino definiva la bellezza del fresco profumo di libertà, che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.
Questa è la responsabilità storica dei politici.
Non servono le parole, la partecipazione a convegni sull’antimafia, la partecipazione a incontri in cui tutti dicono 'che schifo la mafia', 'viva Falcone, viva Borsellino', eccetera. Le parole non servono più a niente. Sono necessari interventi concreti sul territorio, bisogna, ad esempio, proseguire il lavoro di padre Puglisi, che stava vicino alle famiglie della sua borgata e riusciva a sottrarre i ragazzi al facile richiamo degli ambienti mafiosi, portandoli in parrocchia a studiare o giocare, o comunque lontano dalla strada.
Se i cittadini non avranno punti di riferimento credibili e indiscussi sarà ben difficile che trovino da soli la forza di chiudere con la vita del passato e andare incontro a nuove logiche antimafia.
Il momento politico-sociale attuale purtroppo non registra la presenza di uomini di grande spessore morale, in grado di costituire una guida per i cittadini verso la strada dell’antimafia.
La vergognosa realtà è che ancora oggi la vita politica della nostra terra è condizionata da personaggi notoriamente condannati per reati di mafia. 

Si riferisce a Cuffaro e Dell’Utri?
Per me i singoli contano poco, contano le idee. Mi sembra vergognoso che Palermo non riesca a liberarsi da questa cappa mafiosa. Palermo, per la sua storia, dovrebbe essere la capitale dell’antimafia, invece è la solita squallida capitale del compromesso politico-mafioso.
Un tempo Palermo tifava per Falcone e Borsellino.
Oggi, tranne poche eccezioni, tifa per Cuffaro e Dell’Utri.

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