Marzo 1992: i 12 killer di Cosa nostra uccidono l’europarlamentare democristiano Salvo Lima, il delfino di Giulio Andreotti, presidente del consiglio.
Lo sparo è la nota d’inizio della compagnia stragista di Riina. Il boss dopo che la cassazione a gennaio aveva confermato in larghissima parte le condanne del maxiprocesso di Palermo decise di alzare il tiro e colpire direttamente la classe politica che non era stata in grado di mantenere gli equilibri che fino ad allora avevano caratterizzato l’assetto della Prima Repubblica.
Le intenzioni, però, non erano sconosciute. Nero su Bianco, con documenti ufficiali della Dia e atti processuali, ripercorre quello che è stato un vero e proprio carosello di voci che hanno anticipato le stragi. Il 16 marzo, quindi quattro giorni dopo l’omicidio Lima, il capo della polizia dell’epoca Vincenzo Parisi scrisse in una nota riservata che “sono state avanzate minacce di morte con il Presidente del Consiglio e Ministri Vizzini e Mannino…per Marzo-Luglio è prevista una campagna terroristica contro esponenti del PC, PSI et PDS. Strategia comprendente anche episodi stragisti”.
Il ministro dell’interno in carica Vincenzo Scotti, davanti alla commissione affari costituzionali del Senato, lanciò l’allarme facendolo diventare atto pubblico. Non era d’accordo Scotti nel tenerlo rinchiuso nelle stanze del palazzo: “Nascondere ai cittadini che siamo davanti ad un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo. Ai cittadini va detta la verità. Non edulcorata. Me ne assumo la totale e piena responsabilità”.
Tuttavia l’allarme lanciato da Scotti venne etichettato come una ‘patacca’ sia da Andreotti, che dal ministro della giustizia Claudio Martelli. Quest’ultimo davanti alla corte d’Assise al processo trattativa stato - mafia ammise che “col senno di poi si trattò di grave errore” non confrontarsi immediatamente con Parisi in merito a quelle dichiarazioni.
Ma perché venne bollato come patacca?
Perché una delle fonti - perché in realtà molte altre erano concordanti sul punto - era il depistatore Elio Ciolini, al tempo detenuto in carcere.
Bastò quel nome, secondo Martelli, a far cadere la credibilità dell’allarme di Scotti.
Tuttavia il tempo diede ragione a Ciolini: il 23 maggio ci fu la strage di Capaci. Ma anche dopo quel terribile eccidio nessuno analizzò o si interessò di indagare sui ‘suggeritori’ che avrebbero sussurrato all’orecchio di Ciolini (con precisione millimetrica) i piani stragisti.
Questa inerzia politica e giudiziaria si riversò anche in un’altra questione: quella del 41 bis; infatti anche dopo la strage di Capaci la classe politica non volle convertire quel decreto in legge ordinaria.
La conversione arriverà solo dopo la strage di via d’Amelio.
E qui la domanda sorge spontanea: perché Cosa nostra fece la strage del 19 luglio solo dopo 57 giorni? Perché non aspettarono la decadenza del 41 bis? Ma soprattutto: perché si vollero ignorare tutti i segnali che vennero lanciati prima delle stragi?
Sono domande che ancora oggi non hanno trovato risposta, un’altra pagina incompleta della storia d’Italia.
Segui il PODCAST: Nero su Bianco
ARTICOLI CORRELATI
Trattativa, Vincenzo Scotti: ritratto di uno Stato-mafia
Di Lorenzo Baldo
Il biennio delle bombe: le domande scomode sulle stragi 'annunciate'
Processo Mori: la deposizione di Vincenzo Scotti riaccende i timori del ‘92
Ex ministro Scotti: ''Ecco perché è sbagliato rinunciare al 41 bis''
Trattativa Stato-mafia, il ritorno del «depistatore»
''Da Corleone alla rete silente'': Vincenzo Scotti racconta la pax mafiosa dopo le stragi