Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

L’allarme lo lanciò il procuratore aggiunto di Catania Sebastiano Ardita già due anni fa

Partiamo dalla cronaca recente.
Il blitz antimafia di Palermo ha portato all'esecuzione di 183 misure cautelari e colpito i mandamenti di Porta Nuova, Pagliarelli, Tommaso Natale-San Lorenzo, Santa Maria del Gesù e Bagheria.
Ma è una vittoria dal retrogusto amaro, molto amaro.
Il motivo è da ricercare nei corridoi e nelle celle delle carceri, in particolare in quelle dell’Alta Sicurezza, una sezione del carcere in cui sono riuniti tutti i condannati per reati di tipo associativo (mafia, traffico di droga, etc.), che sono sottoposti ad una sorveglianza più stretta rispetto ai detenuti comuni.
Dà lì i boss comandavano, emanavano ordini, gestivano traffico di droga e le estorsioni.
Per i magistrati palermitani si tratta dell'ennesima dimostrazione di quanto gli istituti di pena non garantiscano l'isolamento dei detenuti con l'esterno: Cosa nostra è riuscita a permeare il sistema carcerario al punto che il regime dell'Alta Sicurezza risulta essere ormai in mano alla mafia.
Basti leggere alcuni passi delle carte del gip: "Le indagini svolte nell'ambito del presente procedimento hanno consentito di accertare, da un lato, la perdurante partecipazione a Cosa nostra di più membri storici del mandamento mafioso di Santa Maria di Gesù addirittura ristretti in carcere e, dall'altro, di individuare ulteriori adepti, alcuni dei quali da tempo risalenti ed evidentemente sfuggiti alle pregresse investigazioni, che hanno nel tempo consentito il mantenimento delle funzioni di vertice da parte dei primi"; il detenuto ergastolano "Francesco Pedalino, dal carcere, continuava a esercitare i poteri organizzativi della famiglia di Santa Maria di Gesù risulta provato anche dalle intercettazioni effettuate all’interno della cella della Casa circondariale di Livorno ove era allocato"; boss detenuti che sono riusciti a "organizzare un incontro fra un rappresentante del territorio di Brancaccio" e un altro mafioso per effettuare una "esenzione dal pagamento della cifra dovuta per l'attività commerciale esercitata fuori dal territorio di appartenenza"; venivano fatti "nuovi affiliati" e venivano risolte controversie in seno all'organizzazione stessa. Tutto da dentro il carcere.
"Emblematico – inoltre - appare, a tal proposito, l'episodio della spedizione punitiva operata ai danni di Giuseppe Santoro, deliberata e ordinata telefonicamente dai due Lo Presti detenuti i quali, nel corso di una lunga serie di telefonate, oltre a scegliere minuziosamente la squadra deputata al pestaggio punitivo e a indicare le precise modalità per la realizzazione del loro comando, hanno anche ritenuto di assistere in diretta, grazie al video-collegamento telefonico, al massacro della vittima", spiegano i magistrati nel fermo.


carabinieri auto 112 ima 2055420

© Imagoeconomica


Tale quadro non è per nulla nuovo e non è una situazione attribuibile solo alle capacità organizzative di Cosa nostra.
L'attuale procuratore aggiunto di Catania e già dirigente del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) Sebastiano Ardita aveva già evidenziato che da anni lo Stato aveva "rinunciato all'alta sicurezza cioè alla gestione penitenziaria dei mafiosi differente da quella dei comuni”: "Si sono aperte le celle dei detenuti, si è consentito loro di circolare liberamente all'interno degli spazi come se fosse un miglioramento della loro condizione ma non lo è, è un miglioramento della condizione dei capi, ovviamente, ma non delle persone che subiscono l'arroganza e la violenza di chi si trova a dover comandare al posto dello Stato”.
Immaginate - aveva detto Ardita - che prima c'erano gli agenti penitenziari a controllare. All'interno delle sezioni penitenziarie vanno via gli agenti e vengono lasciati da soli i detenuti. Cosa pensate che accada? C’è una gerarchia che prende il posto delle divise e impone la sua violenza, la sua regola, la sua legge”. Non solo. “Sono stati ampliati gli spazi di concessione di permessi e di misure alternative anche a soggetti che sono imputati o condannati per mafia".
Sulle carceri oggi assistiamo a un paradosso. Da un lato, a causa di una cattiva gestione della sicurezza penitenziaria, i capi mafia, i boss e i personaggi di rilievo continuano a comandare. Dall’altro lato, è molto più facile ottenere benefici penitenziari che dovrebbero spettare a chi si comporta correttamente, quindi si verifica l’opposto di quanto ci si aspetterebbe", aveva detto sempre Ardita intervistato dai nostri microfoni di ANTIMAFIADuemila.
Queste parole furono già scritte nero su bianco nel giugno del 2022 nel libro 'Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere' (edito da Solferino) e ribadite a più riprese negli anni successivi. Con il blitz di Palermo dei giorni scorsi forse si potrà finalmente riaprire una riflessione più approfondita sul tema e apportare le modifiche normative necessarie.
Anche il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo ha lanciato l'allarme sulla permeabilità delle carceri. "Siamo di fronte ad una estrema debolezza del circuito penitenziario di alta sicurezza che dovrebbe contenere la pericolosità dei mafiosi che non sono al 41 bis - aveva detto in conferenza stampa dopo il blitz - e che invece è sempre più assoggettato al dominio della criminalità".
A fargli eco è stato anche il procuratore capo di Palermo Maurizio de Lucia: "E’ ormai flebile la differenza tra lo stare in carcere o no"; "di certo risulta una permeabilità del sistema carcerario: la disponibilità da parte dei detenuti di cellulari per comunicare e realizzare anche dei collegamenti video pone un serio problema". In carcere, i boss utilizzano i microtelefonini, che consentono anche comunicazioni video.


ardita pp amanca

Sebastiano Ardita © Paolo Bassani


Il problema delle 'collaborazioni impedite' e dei boss scarcerati

Nel libro di Sebastiano Ardita viene sottolineato che "è quasi impossibile che un capo mafia che non ha collaborato possa cambiare vita". E per rendere la vita difficile all'istituto della collaborazione sono state approvati alcuni provvedimenti passati in sordina. Uno fra tutti la circolare sulla cosiddetta 'sorveglianza dinamica', introdotta poco dopo che Ardita era uscito dal Dap. Il risultato era stato un totale fallimento: "la polizia penitenziaria sarebbe uscita dalle sezioni, che rimanevano completamente aperte, ingovernabili, sotto il controllo esclusivo dei detenuti, ma nell'assenza di controllo da parte dello Stato".
Un vuoto che le gerarchie criminali, o qualcun altro, avrebbero presto riempito.
Ma a questo punto la domanda sorge spontanea: se un mafioso arrestato dovesse "maturare l'idea di collaborare con la giustizia, potrà mai sottrarsi al controllo e repressione degli altri, che saranno in grado di sorvegliarlo, controllarlo, e di recarsi presso la sua cella in qualsiasi momento?". Potrà mai avere "il tempo di incontrare i magistrati senza essere scoperto?".
La risposta scontata è 'no'. Si può supporre che chi adottato questa disposizione aveva ignorato del tutto il travaglio di chi vive gli effetti di collaborare con la giustizia.
Nel frattempo, però, le recenti riforme legislative hanno depotenziato in maniera significativa l'ergastolo ostativo (ne abbiamo parlato già in diversi articoli precedenti) e poco a poco numerosi capimafia sono già usciti dal carcere: “Queste scarcerazioni - aveva dichiarato Ardita - sono solo la punta dell'iceberg. Molto di peggio potrebbe accadere se continueranno ad applicarsi certi principi e una gestione penitenziaria di questo tipo. D’altra parte, esiste la possibilità, attraverso le maglie dell'ordinamento, di ottenere la libertà con facilità”, aveva commentato, parlando a margine della presentazione a Catania del suo ultimo libro, “Il coraggio del male” (ed. Bonfirraro).
Abbiamo persone pericolose, che hanno commesso reati gravi, anche omicidi, e che sono tornate in libertà. Questa è la realtà. Cosa accadrà quando avranno la forza sufficiente per tornare a governare i territori come hanno fatto negli anni ‘70, ‘80 e ‘90? Questa è la domanda che dobbiamo porci. Ma, prima di porcela, dobbiamo darci una risposta ancora più significativa: guardare al futuro e sradicare il più possibile le realtà criminali che nel passato ci hanno avvilito”.

Foto di copertina © Imagoeconomica

ARTICOLI CORRELATI

Sebastiano Ardita: mafie 'Al di sopra della legge' nelle carceri senza Stato
Di Giorgio Bongiovanni

Il Bene e il Male nel nuovo libro di Sebastiano Ardita
Di Giorgio Bongiovanni

Boss scarcerati, Ardita: ''Cosa accadrà quando torneranno al comando?''

Cosa nostra si stava riorganizzando, imponente blitz con 180 arresti a Palermo

Gratteri: oggi la 'Ndrangheta fa affari nel dark web, l'Italia non è pronta a fronteggiarla

Fiumana di boss scarcerati, Ardita: ''Si sta 'giocando' col monopolio della forza dello Stato''

Palermo, de Lucia: ''Cosa nostra ha bisogno di soldi. Cerca accordi con la 'Ndrangheta''

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos