ANTIMAFIADuemila intervista il professore ed esperto internazionale di organizzazioni mafiose sul nuovo libro scritto con il procuratore capo Nicola Gratteri
Questo articolo, che riproponiamo ai nostri lettori, è stato scritto in data 27-11-2024.
Le mafie hanno abbandonato la violenza plateale per adottare strategie più sofisticate. Quali sono i segnali più evidenti che voi avete acquisito di questa trasformazione e come si riflette sul controllo del territorio?
Bisogna premettere che la violenza è sempre stata strategica e non plateale, non eversiva. Noi abbiamo ovviamente in mente quello che è successo durante la stagione delle stragi, la violenza terroristica dei corleonesi, e quindi abbiamo associato le mafie alla violenza. Storicamente invece le mafie si sono contraddistinte per altri sistemi di persuasione che sono ovviamente legati a forme di collusione e di contiguità con certi ambienti che rendevano meno necessario l'uso della violenza. Per esempio, Cosa nostra sta tornando alle vecchie abitudini, ai traffici di droga, ad una strategia caratterizzata dal basso profilo, in linea con quello che da tempo fa la ‘Ndrangheta, che riesce a centellinare la violenza. Un discorso a parte bisognerebbe farlo per le Camorre che sul territorio hanno declinazioni diverse. Ci sono quelle che riescono a sommergersi, a non farsi vedere, quelle che invece fanno della visibilità la loro forza e quelle che oggi riescono ad acquistare cocaina attraverso computer pagando in criptovalute.
Il problema di oggi, soprattutto lontano dai territori di origine, è come riconoscerle perché hanno un metodo diverso. Il loro genoma sta cambiando e tendono a manifestare la violenza quando proprio è strettamente necessaria e questo ovviamente complica le cose.
In Italia è facile in qualche modo analizzarle, capirle, comprenderle; però all'estero, lontane dai territori di origine, è difficile riconoscerle.
Le mafie devono necessariamente usare la violenza per essere considerate tali? Oppure la riserva di violenza, la reputazione che hanno costruito nel tempo è sufficiente per garantire loro l’accesso a territori che hanno meno dimestichezza con i fenomeni mafiosi.
Lei ha parlato di forme di collusione con certi ambienti, nel vostro libro voi fate riferimento a dirigenti bancari che si sono prestati a operazioni di riciclaggio, anche banche particolarmente importanti. In che modo si potrebbe tagliare questo cordone ombelicale che di fatto lega i proventi delle grandi organizzazioni mafiose con il sistema bancario?
Adesso c'è un approccio razionale. Molte banche, soprattutto fuori dal contesto italiano e a volte anche fuori da quello europeo, ragionano in termini di rischi e guadagni. Soltanto in pochissimi casi, due o tre, è stato possibile perseguire penalmente i responsabili dell’omessa denuncia oppure del favoreggiamento in operazioni di attività di riciclaggio e questo ovviamente complica le cose. Fin quando alcune banche continueranno a ragionare in termini di guadagni e di rischi sarà difficile spezzare questo cordone ombelicale che lega il mondo finanziario ai proventi delle attività criminali. Negli Stati Uniti una banca è stata condannata a pagare una grossa multa, ma nessuno dei dirigenti è stato indagato e perseguito penalmente. Oggi quello che si nota soprattutto nelle cosiddette giurisdizioni opache è la mancanza di distinzione tra denaro pulito e denaro sporco: esiste solo il denaro e bisogna fare di tutto per intercettarlo, perché ‘se non va da noi va dagli altri’, ed è questa la logica che purtroppo prevale in molti contesti.
Oltre l'aspetto tecnocratico, tra virgolette, della questione c'è anche da riflettere sull'aspetto politico: adesso vediamo che c'è una sorta di normalizzazione del fenomeno mafioso e viene da chiedersi a questo punto quanto è fragile l'equilibrio tra il sistema economico e il sistema politico, perché tra i due sta prevalendo il primo.
La cosa che sta passando sotto gli occhi di tutti è che le mafie facciano meno paura, sono meno invasive, sparano di meno. Rischiano di diventare - nostro malgrado, se non lo sono già - una componente strutturale del capitalismo e quindi le stiamo in qualche modo normalizzando. D'altronde dal 2014 calcoliamo nel PIL i proventi di alcune attività criminali. Stiamo assistendo ad un calo di attenzione nei confronti del fenomeno mafioso. Anche sul piano normativo si sta mettendo in discussione tutto quello che finora era stato fatto. Manca la volontà di capire l’evoluzione delle mafie, come esempio ad equiparare i reati informatici a quelli mafiosi. Oggi, le mafie stanno diventando sempre più ibride, in bilico tra realtà analogica e virtualità digitale, stanno esplorando sempre più i domini digitali. Invece, noi continuiamo a discutere di vecchie pratiche che non hanno senso piuttosto che concentrarci e capire che siamo indietro dal punto di vista tecnologico e dobbiamo colmare il gap, perché il gap di oggi è molto più difficile da colmare rispetto a quello di qualche anno fa. Adesso le evoluzioni tecnologiche sono quotidiane e se non teniamo il passo si rischia di non vedere più neanche la polvere di chi ci sta davanti. Proprio perché l’evoluzione galoppa. C'è un altro problema serio da affrontare ed è quello della sicurezza cibernetica, sia come sistema Paese sia come piccole e medie imprese; continuiamo ad essere uno dei paesi più esposti agli attacchi informatici. Siamo anche esposti sul piano della sicurezza nazionale, se è vero che un giovane è riuscito a violare i sistemi del Ministero della Giustizia. Dovremmo fare di più e invece, secondo me, facciamo poco.
Particolarmente interessante è la parte in cui lei e il procuratore Gratteri parlate di questa nuova propensione delle mafie di usare il sistema finanziario cinese come motore di riciclaggio. A tale riguardo io vorrei fare una riflessione con lei. L'asse delle mafie sembra che si stia allargando verso l’Eurasia. Come se avessero sfondato un ‘nuovo muro di Berlino’. In che misura questo potrebbe effettivamente influire sugli equilibri interni alle mafie?
Lei ha colto il nocciolo del problema nel senso che le organizzazioni criminali cinesi, che per comodità chiamiamo Triadi, anche se non fanno parte di un'organizzazione unitaria, stanno diventando sempre più potenti, centrali, nell'universo della criminalità organizzata. Sono quelle che riescono a trasferire capitali senza spostare il denaro da un continente all'altro; sono quelle che oggi garantiscono i precursori chimici per produrre droghe sintetiche. E sono sempre quelle che gestiscono quasi a regime di monopolio tutto il mercato del falso, oltre a quello della fauna selvatica. Oggi stanno diventando sempre più potenti, nel senso che è impossibile non dialogare con loro. I cartelli messicani che producono fentanyl ricevono i precursori dalla Cina tramite il porto di Manzanillo (comune messicano dello stato di Colima ndr). La Camorra che gestisce tutto il mercato del falso, ha rapporti frequenti con loro; la ‘Ndrangheta che deve spostare soldi da una parte all'altra, deve dialogare con i cinesi. Questo sistema simile all'Hawala si sta dimostrando sempre più efficace, tanto che - a parte qualcosa che ancora gestiscono i siriani, i pakistani, i libanesi - il grande mercato del denaro è nelle mani dei cinesi. Prevalentemente i cinesi quindi li vedremo sempre più protagonisti nel futuro. Il baricentro delle organizzazioni criminali si sposterà sempre più verso l'Asia e quindi verso la Cina.
Foto © Imagoeconomica
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