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In un libro-verità il progetto occulto di assalto alla Repubblica rimasto impunito

“Siamo ancora prigionieri di quegli uomini delle istituzioni posti ai più alti livelli che, sventolando visioni risorgimentali e interessi atlantici contro le paure di una sinistra improvvisamente dilagante, si riunivano segretamente come nuovi carbonari per sovvertire lo Stato. Genia abile nel trasformare l’interesse collettivo in interesse personale che, per assicurare potere e profitto a una classe politico-economica di riferimento, hanno impiegato ogni mezzo violento e mistificatore della verità, non avendo scrupolo a ricorrere a intese con la mafia, nell’arrogante certezza dell’impunità”.
E’ l’amara riflessione del generale dei Carabinieri, ora in pensione, Michele Riccio contenuta nel libro scritto assieme ad Anna Vinci “La strategia parallela – Il progetto occulto di assalto alla Repubblica” (Zolfo Editore) in libreria dal 22 novembre. Dal 1975 Riccio ha collaborato con il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, al Nucleo Speciale Lotta al Terrorismo e alla Sezione Speciale Anticrimine di Genova. Un uomo tutto d’un pezzo, decorato con medaglia d'argento al valor militare, che per le sue azioni contro il terrorismo e la criminalità organizzata ha ricevuto numerosi encomi nazionali e internazionali; fino ad arrivare a gestire l’inchiesta denominata “Grande Oriente” per individuare i mandanti esterni delle stragi del ‘92 e del ‘93. Ed è investigando a fondo che la sua consapevolezza acquisita negli anni – sulla presenza effettiva di uno Stato parallelo – è diventata una certezza granitica. Che gli ha scatenato una vendetta oggettiva da parte di quello Stato che non voleva – e non vuole ancora oggi – la verità.
Tutte d’un fiato si leggono le 472 pagine, come un noir ad alta tensione. Ma qui di finzione narrativa non c’è traccia: la forza dirompente della verità travalica ogni argine. Tutto è collegato. Ogni evento si collega ad un altro, che a sua volta è un pezzo di un mosaico che raffigura le origini di un male endemico. La grande capacità di Anna Vinci, biografa di Tina Anselmi (nonché autrice di romanzi, saggi biografici e vari documentari per la Rai), è stata quella di riuscire a trasferire su carta il racconto appassionato della storia oscena del nostro Paese. Che si interseca con quella di un uomo capace di andare oltre se stesso, oltre il prezzo altissimo pagato per il suo coraggio di denunciare la zona grigia di questo Stato, sulla quale gravano pesanti responsabilità nelle stragi del ‘92 e del ‘93.
“La mia storia è parte di quegli interessi trasversali che tanto hanno inquinato in Italia – spiega Riccio – compresa la giustizia, diventata sempre di più un principio etico o una dottrina”.
Il generale racconta passo dopo passo quel “progetto eversivo benedetto anche dai settori più conservatori della Chiesa e dalla massoneria, impegnata a svolgere un’importante opera di collante fra i vari ambienti istituzionali, sociali, imprenditoriali e criminali del Paese, mentre oscuri personaggi come Licio Gelli da Villa Wanda predisponevano piani di governo e di controllo delle istituzioni”. E’ una strategia strisciante, pericolosissima, con una “doppia linea, una dura manipolatrice e nascosta, mentre un’altra legale e moderata metteva la faccia. Ovvero uccidere la democrazia con la democrazia”.


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Michele Riccio



Davanti agli occhi scorrono alcune decadi convulse nella storia del nostro Paese. Anni terribili, segnati da stragi e omicidi eccellenti, dove spicca il fuoco amico, e dove vengono compiute “operazioni ad alto rischio”, mentre si susseguono “episodi inquietanti”. Che mettono a nudo le trame occulte di una “strategia parallela” che a tutt’oggi “continua a inquinare la nostra democrazia”. Attraversando questo ibrido labirinto si arriva al periodo in cui matura un rapporto autentico e significativo tra il generale Riccio e il boss di Cosa nostra Luigi Ilardo, vice capo mandamento a Caltanissetta, nonché cugino del capo mafia Giuseppe “Piddu” Madonia, ma soprattutto infiltrato in Cosa nostra per conto dello Stato. Ilardo avrebbe potuto – il 31 ottobre del ‘95 – condurre gli uomini dell’Arma all'arresto del capo della mafia, Bernardo Provenzano. Avrebbe fatto luce sui mandanti esterni delle stragi del ‘92/’93 e sui rapporti di pezzi delle istituzioni con Cosa nostra. Ma quello Stato parallelo aveva deciso che bisognava fermarlo. Prima con la totale inerzia di fronte alle sue clamorose rivelazioni, e poi con la morte. Il 10 maggio del 1996 – pochi giorni prima che la sua collaborazione con la giustizia venisse formalizzata – Ilardo viene assassinato. “Una fuga di notizie nei nostri ambienti in ossequio a una strategia parallela che agiva nell’ombra aveva determinato la sua morte – spiega Riccio –. Si può morire in più modi e quella sera sono morti tutti, anche lo Stato”. Con quell’omicidio il tragico destino di Riccio è segnato: messo sotto accusa, isolato, delegittimato. Bisognava fargliela pagare, fino in fondo; così da mandare un messaggio chiaro: vedete cosa succede a chi si ribella allo Stato ombra?
Il racconto del generale Riccio si snoda attraverso indicibili “trame fosche, dove chi manovrava nell’ombra aveva da tempo avviato con l’apporto dei servizi segreti una serie d’attentati, per creare quelle condizioni d’instabilità necessarie ad accreditare nel Paese l’esigenza di uno Stato più autoritario”. Prendono così forma “burattinai che con calcolato cinismo con l’apporto di fidati ufficiali «rivoluzionari» e dei soliti agenti segreti avevano già predisposto informative su quanto era opportuno trapelasse” su un possibile golpe.
Ma  c’è anche “l’avvento di Moretti, la sfinge, l’uomo dalle tante facce”, e quel suo ruolo all’interno delle Br “oscuro, come quello di alcuni suoi compagni”. Per Riccio è alquanto probabile che “la differenza l’hanno fatta proprio quei segreti sul caso Moro e quei rapporti nell’ombra che Moretti e qualche compagno hanno posto a loro favore sul piatto della «bilancia giudiziaria»”. Luce quindi sul “lato oscuro nel sequestro di Aldo Moro”; per il generale dei Carabinieri “fu un livello di potere occulto, e non furono certo Mario Moretti, Giovanni Senzani e i loro compagni, a stabilire tempi e modalità della prigionia e, infine, la morte dello statista”.
Discorso analogo per le stragi realizzate da Cosa nostra “per indurre, come è avvenuto, lo Stato a trattare, nell’ambito di un colloquio mai interrotto, al fine di ottenere interventi di legge più favorevoli quali, a esempio, l’abrogazione del 41 bis”.
Di una cosa è certo, Riccio, che “non bisogna dimenticare il contorno delle stragi fasciste, la strategia della tensione e le morti eccellenti per mano della mafia e i mille reati commessi per la realizzazione del progetto, assicurandosi l’impunità di operatori e mandanti istituzionali”. A tutti gli effetti siamo di fronte a “un equilibrio instabile, un putridume dal quale emergono ogni tanto come bolle sordidi ricatti fatti di interviste rese all’amico giornalista spesso anche al soldo dei servizi”.
Seguendo il ragionamento del generale si arriva a comprendere un dato certo: se il fenomeno terroristico nazionale ha di fatto esaurito il suo percorso storico, la mafia “quella che era stata chiamata a partecipare ai vari progetti di golpe, entrando anche nelle Logge e frequentando sempre di più la così detta società bene, scoprì invece di possedere una nuova e più potente arma di sopravvivenza, il denaro”. Proprio quel denaro sporco di cui qualche anno fa si era occupato il giornalista de “Il Sole 24 Ore”, Gianni Dragoni. Che, con dati oggettivi alla mano, aveva evidenziato come, un'ipotetica holding Mafia Spa (che unisce gli affari di Cosa nostra, 'Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita) poteva avere un valore ben superiore dell'intera Borsa italiana. Lo Stato parallelo che emerge in ogni pagina di questo libro non è che lo specchio di un Giano Bifronte pronto a sacrificare i servitori dello Stato vero in quanto corpi estranei. Che intralciano un ingranaggio operante da sempre. Almeno fino a quando qualcuno non si mette di traverso.


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Anna Vinci © Imagoeconomica


“Senza Fabiola, mia moglie, Chiara, mia figlia, i miei genitori, senza la loro forza, nulla avrei potuto mai affrontare – scrive Riccio –, neanche la stesura di tutte queste pagine; dover rivivere momenti, situazioni che ancora attendono risposte non è stato semplice, anzi l’opposto.
Credo che i valori con i quali i nostri padri hanno costruito e reso libera la nostra nazione abbiano un ruolo centrale nel percorso della nostra vita e che le nostre scelte si debbano confrontare con loro prima che si trasformino in azione”.
Per il generale di fronte alle dittature di qualunque tipo non resta che una via: “difendere la nostra libertà, combattendo contro ogni prevaricazione, ogni alleanza politica, mafiosa e massonica, che diventa ogni giorno sempre più stretta per attivare il circuito potere-profitto”.
“Sarebbe stato tempo perduto
– evidenzia quindi con forza – se non avessimo cumulato esperienze, se non avessimo vissuto da uomini, se non avessimo fatto qualcosa, come abbiamo tentato di fare, Anna e io, anche con questo libro. Si dice che alle volte sia un bene dimenticare, ma io non ne sono convinto, credo che sia invece importante ricordare quello che è accaduto per impedire che altri per convenienza tentino di modificare la realtà. Tutto ciò è parte di una esistenza responsabile”.
Dal canto suo Anna Vinci ricorda come il giuramento di Riccio alla Repubblica abbia acceso “una luce che, ben oltre la storia di Luigi Ilardo, illumina il magma di una strategia parallela, che ancora inquina la nostra democrazia”.
E in quella stessa strategia parallela ritroviamo quindi “ambiguità, ipocrisia, rinuncia alla propria identità”, squallidi “compromessi per la costruzione di una comoda e finta democrazia”.
Come un pugno in pieno viso la disillusione cerca di prendere il sopravvento, soprattutto nella società di oggi dove “solo in pochi cercano effettivamente la verità, chi tenta di farlo, viene duramente combattuto, osteggiato, messo all’angolo per poi essere anche calunniato, dileggiato a seconda il momento e le convenienze. Inevitabilmente si accorgerà di essere solo, senza il supporto di nessuno, non farà parte di alcuna squadra, la sua voce non avrà alcun eco, sarà messo all’indice, tutto gli diventerà più difficile, per lui niente sconti, nessun favore e tutto ciò accadrà nell’indifferenza più totale, quando invece molti conoscono la verità”. Per il generale Riccio la motivazione di tutto ciò è alquanto palese. “Troppi tacciono perché hanno approvato certe gestioni e addirittura ne erano anche complici, tacciono per paura o per viltà, altri per conseguire un potere personale, li conosciamo tutti, i nomi sono sempre gli stessi al pari dei loro cloni, citati in mille inchieste, sono malfattori mal truccati, la cui unica abilità è quella di sapersi presentare con la faccia pulita, ma mal truccata. Nessuno può arrogarsi il diritto di gestire la verità o di manipolarla, nessuno è Stato, non esiste nessuna casta di eletti, non servirà interferire o tentare d’influenzare i vari poteri dello Stato, né accaparrarsi gli organi d’informazione per condizionare il pensiero del cittadino, né di riscrivere la storia, come si sta tentando di fare oggi”.
“E i cittadini italiani?”
, si chiede infine Riccio. La risposta è lapidaria: “In un Paese dove l’informazione è sempre più censurata, condizionata, asservita, vivono oggi un momento di grande confusione, sembra ci sia meno interesse ad affrontare certe vicende o a chiedere la verità sui grandi delitti. Le persone, già disilluse, scettiche, al momento opportuno rischiano di essere sapientemente investite da cortine fumogene che innestano false polemiche, dubbi.
Ma non dimentichiamo che i delitti rimangono delitti. Chiunque e in nome di chiunque li compia”.

Realizzazione grafica by Paolo Bassani

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