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Nemmeno 42mila morti, di cui 15mila bambini, bastano al mondo per prendere una posizione netta contro Israele che intanto continua a uccidere e destabilizzare

Oggi, 7 ottobre 2024, si compie un anno dal genocidio in corso nella Striscia di Gaza ai danni dei palestinesi. E al contempo, si compie un anno dall’operazione militare “Diluvio di Al Aqsa” realizzata da Hamas ai danni della popolazione israeliana. Per Israele si tratta della pagina più buia del mondo ebraico dai tempi del nazismo ad oggi (circa 1200 israeliani uccisi e 250 ostaggi portati nell’enclave). Per i palestinesi si tratta del giorno in cui è stato sconfitto il mito della imbattibilità militare israeliana. Un violento e sanguinoso “strattone” nella storia contemporanea che ha portato ai livelli più alti la linea di sangue di cui è costellata la ultradecennale lotta di liberazione del popolo palestinese. I palestinesi considerano l’attacco come la risposta a 76 anni di pulizia etnica e di occupazione della Palestina e all’annichilamento dei diritti di ciascuno di loro. Del resto, il 2023, alla vigilia del 7 ottobre, Israele soffocava Gaza con un assedio che durava (e dura ancora) da 16 anni (distruggendo l’economia), continuava a rendere il 2023 l’anno più sanguinoso degli ultimi 20, e i coloni devastavano in veri pogrom villaggi palestinesi in totale impunità. Tutto questo nel silenzio e nella complicità della comunità internazionale. La stessa che si è poi strappata le vesti il 7 ottobre davanti alle immagini crude che giungevano dal festival Nova (organizzato a due passi da un campo di concentramento, cioé Gaza) e dai vari kibbutz presi d’assalto. Quel sabato mattina il mondo intero si è svegliato con truppe di miliziani palestinesi che infrangevano l’assedio, distruggevano il muro e assaltavano i kibbutz israeliani, quelli che un tempo erano i villaggi dei loro nonni poi rasi al suolo da Israele nel 1948 e in anni di espulsioni forzate.

Immagini scioccanti, indubbiamente. Ma che non possono essere isolate dal contesto della colonizzazione presente Palestina e delle sue prevedibili (quanto tragiche) conseguenze. Frantz Fanon affermava che “come ogni processo di colonizzazione è un processo violento, anche la decolonizzazione lo è”. “La pressione violenta che si esercita sul colonizzato in diversi modi, per molto tempo, si converte in una rabbia vulcanica accumulata che esplode in qualunque momento con violenza anche per una rivendicazione elementare: il cibo, l’acqua e la terra. La vita che conduce il colonizzatore è anche in gran parte la vita che è stata tolta al colonizzato”. Da qui lo spirito di rivalsa per un torto subito e il desiderio di riconquista dei propri diritti. Bolivia, Haiti, Algeria. La storia non ammette interpretazioni e insegna che gli oppressi, derubati della dignità, della terra, e nel caso dei palestinesi persino della identità, resisteranno. E hanno diritto a resistere anche secondo il diritto internazionale. Nel caso della Palestina, a lungo si è tentata la via della pace e del dialgo con Israele. Ma ogni sforzo diplomatico, come gli accordi di Oslo, è tramontato per colpa delle mire espansionistiche israeliane e ha visto l’occupante continuare a occupare impunemente.


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Inoltre, nelle settimane precedenti al 7 ottobre Israele, dopo aver allacciato i rapporti con Bahrain, Marocco e Uae, stava per stipulare un accordo di normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita sulle teste dei palestinesi. Stati Uniti, petrolmonarchie e Israele, con i così detti accordi di Abramo, stavano tentando di risolvere il dramma palestinese senza coinvolgere i palestinesi e con soluzioni politiche irricevibili. Un affronto che Hamas non ha tollerato. Era solo questione di tempo prima che i palestinesi rispondessero. Così è stato. Ma nessuno si aspettava una contro-risposta così brutale da parte di Israele. Già dalle prime ore del pomeriggio del 7 ottobre, quando ancora i miliziani di Hamas erano nascosti tra le case delle città situate a pochi chilometri dalla striscia di Gaza (considerata la prigione a cielo aperto più grande del mondo) Israele aveva sganciato bombe sull’enclave uccidendo 500 palestinesi. Da allora, oltre 42.000 palestinesi sono stati uccisi, tra cui 15.000 bambini, con almeno altri 10.000 dispersi. I morti includono oltre 100 giornalisti, 500 operatori sanitari e 280 operatori sociali. Il 90% della popolazione è stata sfollata, l'80% degli edifici di Gaza sono stati distrutti, comprese tutte le università, l'80% delle scuole e il 90% degli ospedali sono stati danneggiati o distrutti. Un vero e proprio bagno di sangue. “Gaza inferno in terra”, sono le parole delle Nazioni Unite sul genocidio in corso. Il primo genocidio trasmesso live, sui social, dai soldati che lo realizzano, uccidendo, distruggendo, arrestando, torturando, e molestando palestinesi e i loro averi davanti a platee di follower, israeliani e non, esaltati quanto i soldati dell’Idf.

Aryeh Neier, una sopravvissuta all'Olocausto e fondatrice di Human Rights Watch, come molti altri esperti ha stabilito che "Israele è impegnato in un genocidio contro i palestinesi a Gaza". Come lei, tanti altri ebrei nel mondo si dissociano dalle azioni di Benjamin Netanyahu e dai ministri e truppe di Israele. Azioni che, in più di un'occasione, ricordano quelle delle SS o delle Camice Nere. Negli ultimi 12 mesi Israele ha fatto tutto ciò che voleva senza che qualcuno riuscisse a fermarlo (ha violato anche la risoluzione passata in consiglio di sicurezza Onu sulla tregua durante il mese di ramadan). Attualmente Israele è stata portata davanti alla Corte Penale Internazionale dal Sudafrica e da altri paesi con l’accusa di genocidio. Benjamin Netanyahu, insieme al ministro della Difesa Yohav Gallant, in compagnia di Yahya Sinwar (leader supremo di Hamas, succeduto a Ismail Haniye dopo che questi è stato ucciso dal Mossad questa estate) sono accusati di crimini di guerra e su di loro pende una richiesta di mandato di cattura internazionale. Il massacro di palestinesi sembra non cessare. Ogni giorno ci sono vittime. Oltre due milioni di persone, di queste, un vastissimo numero di bambini, vivono da 12 mesi con il terrore negli occhi, il dolore nel petto, la fame nello stomaco e lo stress nella mente. Nell’ultimo anno le principali personalità del governo israeliano, così come buona parte dei cittadini, hanno dimostrato totale sprezzo per la vita umana. “I palestinesi sono animali umani”, ha detto Gallant prima di ordinare la chiusura di tutti i valichi con Israele, centellinando per mesi (ancora è così) l’ingresso di container di viveri e medicinali.


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Benjamin Netanyahu © Imagoeconomica


Quasi ogni famiglia a Gaza piange un familiare ucciso dalle bombe israeliane prodotte dall’occidente. Lo stesso occidente che finanzia e arma Israele (il nostro paese è il terzo esportatore dopo Usa e Germania), lo sostiene mediaticamente e lo protegge alle Nazioni Unite a suon di veti, facendo decadere risoluzioni. Ogni critica mossa contro Israele, finanche quelle fatte dai funzionari dell’Onu, vengono tacciate, strumentalmente, come espressioni di antisemitismo. Un gioco vile con il quale si sono messe a tacere voci autorevoli del mondo del pacifismo e della cultura (per non parlare dei cittadini comuni).

I nemici dei palestinesi vorrebbero tuttora inchiodare la discussione e diffondere la narrazione secondo cui “tutto il male è iniziato il 7 ottobre”. Una tesi talmente insostenibile che milioni di persone in tutto il mondo l’hanno respinta scendendo per mesi nelle piazze al fianco dei palestinesi anche in moltissimi paesi occidentali.

Quella tesi non solo cancella le migliaia di palestinesi uccisi prima del 7 ottobre nelle varie aggressioni su Gaza (Piombo Fuso, Margine Protettivo, Guardiano delle Mura, le fucilazioni di massa dei giovani che partecipavano alla Grande Marcia del Ritorno al confine di Gaza), ma omette quello che negli anni precedenti è stato un mix tra l’assassinio politico della questione palestinese e la pulizia etnica attuata attraverso il boom delle colonie israeliane in Cisgiordania (dalla situazione degli accordi di Oslo i coloni sono passati da 150 mila a 650 mila) che rendono praticamente impossibile la nascita di uno Stato palestinese indipendente a fianco di quello israeliano. Invocare oggi il progetto di “due stati per due popoli” come soluzione è diventato uno specchietto per le allodole privo di qualsiasi concretezza. Una ipocrisia che smentisce la topografia. Le mappe della Grande Israele, pilastro del sionismo, esibite da Netanyahu negli Stati Uniti prima del 7 ottobre sono lì a confermare tale progetto (la Cisgiordania non esiste).


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E ora Israele, non contenta, intende aprire altri scenari di guerra in Levante. Prima con l’ondata di omicidi politici contro “i nemici di Israele”, poi con i bombardamenti e l’invasione israeliana del Libano ed infine il concreto rischio di una escalation bellica tra Israele e Iran. Dopo 76 anni Israele e gli israeliani non hanno capito che per vivere al “sicuro”, come dicono di volere, l’ultima cosa da fare è distruggere i paesi vicini col pretesto, tutto americano, della lotta al terrorismo. L’unico modo per avere pace è rinunciare al progetto coloniale sionista, all’apartheid, all’occupazione, e riconoscere al popolo palestinese i propri diritti.

Elaborazione grafica by Paolo Bassani

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