L'intervista dell'ex procuratore capo di Palermo al 'Fatto Quotidiano'
“Un presidente del Consiglio che interviene a piedi giunti su un magistrato qualunque che sta facendo il suo mestiere è uno squilibrio istituzionale. Siamo oltre la critica, c’è una stortura, uno squilibrio che non fa bene alla democrazia e all’esercizio indipendente della giurisdizione”. È questo il duro commento dell’ex procuratore capo di Palermo e Torino Gian Carlo Caselli in un’intervista al ‘Fatto Quotidiano’ in merito ai commenti del premier Giorgia Meloni sulla richiesta di condanna a 6 anni avanzata dai pm di Palermo contro l’attuale ministro dei Trasporti Matteo Salvini per la gestione, nell’agosto 2019, della nave carica di migranti Open Arms quando era ministro dell’Interno. “È incredibile che un ministro della Repubblica italiana rischi 6 anni di carcere per aver svolto il proprio lavoro difendendo i confini della Nazione, così come richiesto dal mandato ricevuto dai cittadini. Trasformare in un crimine il dovere di proteggere i confini italiani dall’immigrazione illegale è un precedente gravissimo. La mia totale solidarietà a Salvini”, ha commentato la premier. Con lei però si è mosso tutto il carro della cavalleria anti-toghe: “È un vero attacco alla nostra democrazia e un insulto alla Costituzione” ha detto il viceministro agli Esteri di FdI Edmondo Cirielli. La vice presidente del Senato Licia Ronzulli (Forza Italia) ha parlato di una richiesta “inaccettabile nei confronti di Salvini, considerato peggio di un corrotto, un ladro o un violentatore: è un’enormità”. Il più ‘estremista’ è Maurizio Gasparri: “Gli interventi che abbiamo sentito da parte della magistratura a Palermo rappresentano un atto eversivo. C’è materia per approfondire questa vicenda e lo faremo”.
A commento delle sparate di questo ‘plotone d’esecuzione’ Caselli ricorda che “soltanto nel nostro Paese quando il processo riguarda un personaggio eccellente succede che la giurisdizione non sia soltanto criticata, ma anche non accettata. È una specie di applicazione di un processo di rottura che consiste nella non accettazione di essere giudicato. Solo in Italia non si accetta il principio di legalità che la legge è uguale per tutti. Altrove si critica, ma non si nega in radice il principio di giurisdizione”.
D’altronde i semi piantati nell’epoca berlusconiana e andreottiana hanno dato buoni frutti: basti ricordare come “in due interviste contemporanee a Boris Johnson per The Spectator e alla Voce di Rimini” Silvio Berlusconi “arrivò a dire che per fare i magistrati bisognava essere malati di mente e antropologicamente diversi dalla razza umana. Anche questo era un rifiuto della giurisdizione, oltre al lodo Alfano”.
E come non dimenticare il grido ‘assolto, assolto, assolto!’ dopo che la corte d’Appello di Palermo dichiarò prescritto il reato di associazione mafiosa contestato a Giulio Andreotti anche se gli stessi giudici misero “nero su bianco che Andreotti aveva commesso il reato di associazione a delinquere mafiosa fino al 1980”.
Anche in quel caso c’era un ‘plotone di esecuzione’: una vera e propria “batteria di assalto: politici, il Vaticano, organi di informazione che ci pensavano loro a sparare ad alzo zero per lui” ha detto Caselli al ‘Fatto’.
Tutti tasselli di un’Italia che mal digerisce la giustizia e che vede come suo ultimo atto l’assoluzione a mezzo stampa di Giovanni Toti, l’ex governatore della Liguria, “dimenticando che c’era stata un’inchiesta dalla quale erano scaturiti degli arresti. Fatta salva la presunzione di non colpevolezza, se ci sono provvedimenti cautelari, elementi per sostenere le accuse ce ne sono”.
Tutto ruota attorno ad un gioco di prestigio: con una parola (il cui significato viene del tutto ribaltato) si può delegittimare il lavoro di tutta una procura. La parola in merito è ‘patteggiamento’: “Si patteggia quando non si è convinti di poter dimostrare la propria innocenza” spiega l’x magistrato; “chi patteggia riconosce che le accuse a suo carico non possono essere smontate facilmente, ci sono degli elementi probatori robusti. Dire che invece così viene smontato il teorema della procura, l’imputato vince e la procura è asfaltata, è appunto distorcere il significato delle parole non per far passare una verità ma far passare quel che conviene a me”.
E dove sta ora la cavalleria garantista che contesta ai giornalisti di scrivere sentenze di condanna ora che in molti stanno scrivendo le assoluzioni?
La stampa fa comodo solo quando fa da cuscino alle poltrone dei potenti?
Fonte: ilfattoquotidiano.it
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