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“Reparto G7 di Rebibbia. Alla grata metallica della cella numero 3 della sezione B c’è un corpo appeso. Attorno al collo un cappio, realizzato con i lacci delle scarpe da ginnastica. È l’immagine di un suicidio. Quando viene dato l’allarme, in quella notte tra il 28 e il 29 luglio 1993, non c’è più nulla da fare: il detenuto Antonino Gioè, trentasettenne boss di Altofonte, è morto. La notizia compare sui giornali il giorno dopo e non c’è troppo spazio all’immaginazione. Alcuni titoli sono lapidari: Il boss si impicca in cella, Suicida in carcere un boss mafioso. Era sotto sorveglianza, Si impicca in carcere Gioè, coinvolto in inchieste di mafia”.
Inizia così il racconto di Aaron Pettinari, caporedattore di ANTIMAFIADuemila nel libro "Il mistero sul caso Gioè", pubblicato per la collana della Gazzetta dello Sport e del Corriere della Sera, “Mafie-storie della criminalità organizzata”.
Un testo in cui viene ripercorsa la storia del boss di Altofonte che venne trovato ucciso trentuno anni fa. Dalle indagini che furono compiute al tempo, fino al contenuto della misteriosa lettera in cui Gioè spiegherebbe il perché di un gesto così estermo con riferimenti a due personaggi come il boss calabrese Domenico Papalia e l'ex estremista nero Paolo Bellini, condannato anche in appello a Bologna per l'attentato del 2 agosto 1980 alla Stazione Centrale
Antonino Gioè – ricorda Pettinari - non era un «picciotto qualunque» in Cosa nostra”. Viene descritto dai collaboratori di giustizia come un elemento chiave di raccordo, capace di mettere in relazione vari mondi.
Era presente anche nella collina di Capaci, accanto a Giovanni Brusca. E' emerso nel corso dei processi sulla strage che uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta,che lo stesso utilizzasse un cellulare fantasma. Dall'analisi dei tabulati è emerso che quel cellulare chiamò più volte un numero americano, del Minnesota.  Chi rispondeva, dal Minnesota?
Sempre nei processi è stato dimostrato il rapporto tra Gioè e Bellini il quale si rese protagonista di una "trattativa parallela tra Stato e mafia" con la proposta di un occhio di riguardo verso alcuni boss in carcere in cambio del recupero di opere d'arte rubate. 
I due si conobbero per la prima volta in carcere nel 1981 e caso vuole che i due si incontrassero nuovamente, così come raccontato da Bellini, proprio nel 1991 nelle zone di Enna.
Ma Gioè era anche uno dei pochi boss che aveva un canale diretto con Totò Riina. Ed è lecito ritenere che fosse a consocenza di diversi segreti su quella terribile stagione di bombe e sangue.

caso gioe pettinariE' un dato storico, come evidenziato nel libro, che la morte di Gioè “avvenne nel pieno della campagna stragista, appena un giorno dopo la notte delle bombe di Milano, in via Palestro (dove morirono cinque persone), e Roma, davanti alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro”.
A distanza di anni “troppe cose sono rimaste oscure di quella notte «romana», a cominciare dai segni rimasti sul corpo del detenuto che non fanno pensare a un’azione in solitudine. Anche la lettera rinvenuta nella cella non riesce a colmare i vuoti. Anzi, alimenta dubbi e interrogativi. Gli stessi di tutti quei soggetti che avevano avuto modo di interloquire con lui nei giorni prima della morte e che avevano notato un cambiamento nell’atteggiamento quotidiano. Per anni si è pensato che dietro al motivo per cui Gioè aveva deciso di togliersi la vita vi fossero i fiumi di parole detti quando era ancora libero e, inconsapevolmente, veniva intercettato dagli agenti della Dia che erano sulle sue tracce. Qualcuno mise in giro la voce che lo stesso avesse ricevuto un messaggio dall’esterno. Ma oggi nuovi elementi portano a ben altre conclusioni e si fa sempre più strada la possibilità che lo stesso Gioè avesse iniziato, o volesse iniziare, a collaborare con la giustizia.
Un passo che in quel preciso momento storico, in cui erano in corso le indagini sulle stragi di Capaci e via d’Amelio, avrebbe potuto segnare un’importantissima svolta non solo nell’individuazione delle responsabilità mafiose, ma anche, se non soprattutto, nel dare un volto ai cosiddetti «mandanti» o «concorrenti» esterni”.
“Fatti. Misfatti. Strategie. Complicità. Patti. Trattative. Antonino Gioè era a conoscenza dei segreti delle stragi degli anni Novanta. Attentati e delitti che mettono in mostra la storia di una mafia che, in preda al delirio di onnipotenza, si è resa protagonista di un vero e proprio attacco allo Stato, anche per interessi di altri”.
Ecco cosa avrebbe rivelato. Invece no. Tutto fu fermato sul nascere, come disse l'ex Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato: “Nella storia delle stragi ci sono 15 morti strane, tra omicidi e suicidi. Morti come quella di Gioè sono state una lectio magistralis, un'esibizione straordinaria di potere che ha chiuso e tappato le bocche. Questo potere intimidatorio è forte perché riesce addirittura a entrare nel circuito più protetto, quello delle carceri, e ad intervenire cucendo le bocche proprio quando ha paura che qualche maglia possa cedere". Colpirne uno per educarne cento. E mettere una pietra tombale davanti alla verità sulle stragi.
Di seguito vi proponiamo un estratto del libro:

PENTITI CONVINTI: GIOÈ VOLEVA COLLABORARE

La questione è sempre rimasta aperta. «Fu un vero suicidio o una morte procurata per impedire una collaborazione con possibili effetti destabilizzanti su apparati deviati dello Stato?» si domandava il pm Luca Tescaroli nella requisitoria al processo per la strage di Capaci.
Dubbi e sospetti verranno alimentati nel corso del tempo. E i primi a dubitare della verità ufficiale che veniva offerta al mondo esterno erano gli stessi mafiosi. In questi anni diversi pentiti si sono detti convinti che Gioè avesse già allora iniziato a collaborare con la giustizia.
Uno dei primi a seminare il sospetto era stato Mario Santo Di Matteo, che fu uno degli ultimi a vedere in vita Gioè. «Mi trovavo presso il carcere di Rebibbia e passeggiavo all’esterno durante l’ora d’aria», aveva raccontato Mario Santo Di Matteo nel 2014, sentito nel processo Borsellino quater, «quando da una finestra si affaccia Gioè. Mi sembrava un barbo- ne per come era messo in viso. Gli chiesi come stava, se faceva colloqui con la famiglia. Mi disse che stava bene, che mangiava pesce spada e che tutti i giorni vedeva il fratello. Gli chiesi: “Che stai a combinà?” e lui chiuse la finestra. In quel momento capii che stava combinando qualcosa e pensai che stesse collaborando. E all’indomani mattina mi portano all’Asinara. Lì dopo qualche giorno che si diffuse la notizia della morte, vennero a interrogarmi e mi dissero che Gioè aveva parlato di me nella lettera. Io sono sempre convinto che si sia ucciso perché aveva saltato il fosso.» Anche l’ex mafioso Angelo Siino, nel processo d’Appello per la strage di Capaci, disse proprio a Tescaroli di aver saputo che era stato visto parlare «con agenti o carabinieri o organi dello Stato poco prima del suicidio in carcere». Nient’altro che voci, in quel momento.

GIOACCHINO LA BARBERA E QUEL NUOVO SPUNTO

Il magistrato Gianfranco Donadio, ex sostituto procuratore nazionale antimafia e oggi procuratore capo di Lagonegro, fu sentito il 29 dicembre 2017 dalla Commissione parlamentare antimafia presieduta da Rosy Bindi, per parlare di tutte le «questioni aperte» riguardo alle indagini sulle stragi di mafia dei primi anni Novanta. E proprio in quel contesto aveva messo in relazione la morte del boss infiltrato Luigi Ilardo, ucciso il 10 maggio 1996, e quella di Nino Gioè. Due episodi distinti, ma ugualmente decisivi, tanto da definirli come «i due pilastri che fissano un po’ le Colonne d’Ercole, i limiti della verità dicibile» sugli anni delle stragi. «Ricordo sempre, e non lo dimenticherò mai, la sera in cui uscii dalla Procura della Repubblica di Roma, accompagnato dal collega Silverio Piro, che purtroppo è deceduto. Piro, come è noto, era un bravissimo magistrato. Passai con lui quasi tutta una giornata a studiare gli atti relativi alla morte di Gioè. Piro è stato un magistrato inquirente scrupolosissimo. Nel corso dell’indagine non aveva trascurato nulla e aveva con vivo dispiacere firmato la richiesta di archiviazione. Le ultime parole che mi disse Piro – non ci siamo mai più incontrati – sono state: “Gianfranco, io non sono per nulla convinto che si sia suicidato”».
In quell’audizione Donadio richiamò l’attenzione dei commissari su un’intervista che fu rilasciata a Raffaella Fanelli dal «compagno di latitanza» di Gioè, Gioacchino La Barbera, pubblicata su «la Repubblica» il 19 settembre 2015. L’ipotesi messa sul tavolo andava oltre alla semplice volontà di intraprendere una collaborazione con la giustizia. «Non so se si è suicidato» diceva. «Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene... Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l’unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all’Asinara».
Anche per quelle dichiarazioni venne risentito nell’ambito del processo Capaci bis. In quell’occasione, però, ridimensionò notevolmente le proprie dichiarazioni: «Ho esagerato un po’ perché sicuramente ci sarà qualche verbale... io non lo so però lì parlando con la giornalista ho esagerato nel dire che si sono fatti verbali. Io l’ho pensato e si pensava che lui stesse collaborando con la giustizia ma si parla di verbali tra virgolette, sono cose che penso io ma non sono a conoscenza diretta di verbali scritti». Le spiegazioni fornite, però, non misero fine ai dubbi. Possibile che Gioè avesse davvero saltato il fosso.

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