Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

Ancora oggi restano domande aperte sulla notte di terrore della Repubblica in cui si temeva il colpo di Stato

Sono le 23 circa del 27 luglio 1993. Due vigili urbani transitano con l'auto di servizio in via Palestro a Milano, chiamati da un gruppo di persone per la presenza di una macchina Fiat Uno dai cui finestrini usciva del fumo. Passa qualche minuto e arrivano anche i vigili del fuoco, che notano la presenza, all'interno del cofano, di un involucro di grosse dimensioni e, temendo trattarsi di una bomba, ordinano l’evacuazione della zona.
Passa qualche attimo (23.14) e il veicolo salta in aria, uccidendo tre di loro (Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno), il vigile urbano Alessandro Ferrari, e una persona che dormiva su una panchina dei vicini giardini pubblici (Driss Moussafir). Almeno dodici i feriti. L'esplosione è così potente da distruggere i vetri delle abitazioni in un raggio di circa 200-300 metri e danneggiare il muro esterno del Padiglione di Arte contemporanea. Qualche altro giro di orologio e altre due bombe, questa volta a Roma, esplodono. Una sul retro della Basilica di San Giovanni in Laterano dove ha sede la Curia, l’altro davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro, per fortuna senza fare vittime.
Nelle stesse ore viene registrato un black out a Palazzo Chigi e le linee telefoniche rimangono isolate per alcune ore.
Sono gli attentati di quella lunga e indimenticabile notte della nostra Repubblica di cui oggi ricorre il 31° anniversario.
L’allora Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, interrogato anni dopo dai magistrati di Palermo che indagavano su quella stagione di bombe e misteri ed in particolare sulla trattativa Stato-mafia, riferì addirittura di aver temuto che fosse in atto un colpo di Stato, data la consequenzialità degli eventi e l’isolamento di Palazzo Chigi quella notte. Colpo di Stato, inteso come la presa del potere da forze armate golpiste, non era. Ma sicuramente dietro quei fatti si celava una trama da brividi che prevedeva un ricatto allo Stato con un’escalation di terrore da far crollare le più alte istituzioni e intimidire l’Italia intera. Un ricatto della mafia senza dubbio, come accerteranno le sentenze, ma orchestrato da soggetti esterni alla stessa.


georgofili comm24 cop

Il luogo della strage in via dei Georgofili a Firenze © Davide de Bari


Il terrore era nell’aria in quel periodo. Due mesi prima esatti, la notte del 26 maggio, un’altra autobomba era esplosa a Firenze (un Fiorino ad essere precisi) sotto la storica Torre dei Pulci, a pochi passi dal Museo degli Uffizi, strappando la vita a cinque persone, tra le quali una bambina di nove anni e l’altra di 50 giorni (Nadia e Caterina Nencioni). Il 14 maggio l’attentato a Costanzo in via Fauro a Roma e l’anno prima le stragi di Capaci e via d’Amelio.
Ciampi, dopo la notte delle bombe, annunciò di voler riformare i servizi segreti e il 2 agosto 1993, partecipando a sorpresa alla commemorazione della strage di Bologna del 1980, disse queste precise parole: “È contro questa concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”. A cosa si riferiva il premier quando parlava di “torbida alleanza di forze”? Come detto, la responsabilità dei mafiosi siciliani è accertata, ma c’è un’ombra che non solo ha coordinato i boss nel loro piano stragista ma li ha accompagnati nell’esecuzione degli attentati.
Le indagini passarono in fretta dalla procura di Milano a quella di Firenze in quanto l'esplosivo utilizzato nell'attentato era lo stesso di quello utilizzato in via dei Georgofili. Un esplosivo di tipo militare, quindi di rara reperibilità. Ma si tratta solo di uno dei tanti misteri che avvolgono quelle bombe dei primi anni ’90.

Chi era quella donna?

Tra le varie domande ancora senza risposta quella che, probabilmente, è la più sconcertante è chi fosse la giovane donna bionda vista allontanarsi dal veicolo poco prima dell'esplosione in via Palestro.
E' cosa risaputa che in Cosa nostra nessuna donna era ammessa nei gruppi di fuoco per compiere delitti, tantomeno nelle squadre chiamate a compiere attentati. Questo porta inevitabilmente a ritenere che fosse esterna all’organizzazione.
La procura di Firenze, diretta da Giuseppe Creazzo, che ha creato un pool che vede l'impegno dei procuratori aggiunti Luca Tescaroli (oggi impegnato a Prato) e Luca Turco ha ripreso in mano gli identikit da cui emerge che le figure femminili dietro le stragi sarebbero non una, ma addirittura quattro.


palazzo giustizia firenze c imagoeconomica 1438331

Tribunale di Firenze © Imagoeconomica


Si parla di una giovane donna a Milano, come di una a Roma e una a Firenze.La presenza di figure femminili disarticola completamente l’idea che a commettere quelle stragi sia stata solo Cosa nostra”, sostiene il procuratore della Repubblica di Lagonegro Gianfranco Donadio, che a lungo ha indagato sulle stragi. Il magistrato ricorda, per esempio, un rapporto della DIGOS in cui si parla esplicitamente di “una donna terrorista che sarebbe appartenuta a una, diciamo così, organizzazione parallela, che avrebbe agito al fianco della mafia corleonese nelle stragi del ’92 e soprattutto in quelle del ’93”. Donadio ed altri colleghi pm ritengono che queste donne appartengano ad ambienti dei servizi segreti italiani e hanno goduto, e godono tuttora di coperture ad altissimi livelli.
I verbali con le testimonianze raccolte dopo le bombe del ’93 sono stati ripresi dalla Procura fiorentina che ha anche iscritto nel registro degli indagati tale Rosa Belotti, una 59enne di Bergamo (che si dichiara innocente). Secondo l'accusa, però, potrebbe essere lei ad aver guidato la Fiat Uno imbottita d’esplosivo fino in via Palestro.
A lei si è arrivati grazie a un software che ha incrociato il suo identikit, costruito sulla base dei racconti dei testimoni, con una vecchia foto che ritraeva una giovane. Una foto  ritrovata durante una perquisizione del settembre del 1993 in un villino di Alcamo, in provincia di Trapani. Quell’abitazione, gestita da due carabinieri, nascondeva un gigantesco “Nasco”: un deposito di armi clandestino della struttura di Gladio. Ma le accuse caddero. La foto, invece, è rimasta agli atti e molti anni dopo ha messo nei guai Rosa Belotti. La donna, sentita dai magistrati, sebbene abbia respinto ogni accusa asserendo che lei in via Palestro non era presente, ha confermato di essere lei la donna della fotografia trovata ad Alcamo.


Verità giudiziarie

Se l’identità di soggetti esterni alla mafia che parteciparono alle stragi del 1993 rimane ancora sconosciuta, in questi anni polizia giudiziaria, pm e diversi giudici sono riusciti ad individuare quali boia di mafia parteciparono alla mattanza. Un lavoro di indagine complesso, reso possibile grazie alle dichiarazioni di testimoni e collaboratori di giustizia come Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco. Nel 1998 i boss Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli sono stati riconosciuti come esecutori materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del 1993. Uno squadrone della morte che rispondeva agli ordini di Filippo e Giuseppe Graviano, i boss di Brancaccio ritenuti "propulsori" della strategia stragista in Continente, anche loro condannati per le bombe.
Ma le sentenze mostrano che dietro a quella strategia stragista vi potesse essere anche altro. “Purtroppo - si legge - la mancata individuazione della base delle operazioni a Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di penetrare in quelle realtà che, come dimostrato dall’investigazione condotta nelle altre vicende all’esame di questa Corte, si sono rivelate più promettenti sotto il profilo della verifica 'esterna'”.


san giorgio velabro indeciso42

La facciata della chiesa di San Giorgio al Velabro a Roma devastata dall'esplosione © indeciso42


Un nuovo capitolo si è poi aperto nel 2002 quando, sempre in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l'arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso ("uomini d'onore" di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell'esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente l'attentato. I fratelli Formoso vennero condannati nel 2003 all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Milano ed il giudizio venne confermato anche nei successivi gradi di giudizio.
Una nuova spinta è giunta nel 2008 quando ha iniziato la propria collaborazione con la giustizia Gaspare Spatuzza, ex boss di Brancaccio che ha contribuito a riscrivere la verità sulla strage di via d'Amelio.
Con le sue dichiarazioni di fatto Spatuzza scagionò anche Tommaso Formoso, dichiarando che all'attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l'esplosivo. Ciò non bastò a portare alla revisione del processo tanto che nell'aprile 2012 la Corte d'Assise di Brescia rigettò la richiesta adducendo che le sole dichiarazioni di Spatuzza non bastavano.
Con le stesse motivazioni, di fatto, è stato assolto in via definitiva anche Filippo Marcello Tutino, accusato di essere stato il basista della strage.

“Quelle morti non ci appartengono”

Ritornando ai mandanti esterni, o alle presenze esterne sui luoghi degli attentati, non si possono dimenticare le parole del pentito Gaspare Spatuzza. "Capaci ci appartiene, via D'Amelio anche. Ma Firenze, Milano e Roma sono una storia diversa, sono morti che non ci appartengono”, ha affermato il collaboratore di giustizia in vari processi. Non è un caso, infatti, che oltre alla presenza costante di donne nei tre luoghi degli attentati, tutte le bombe del 1993 sono rivolte a musei, monumenti, luoghi d’arte. E tutte e tre in città simbolo: Firenze, capitale della cultura; Roma, capitale politica e Milano, capitale economica. E’ chiaro che attentare al patrimonio artistico e culturale di un Paese, non manifesta solo la volontà di metterlo all'angolo, ma destabilizzarlo dalle fondamenta. Infilare il coltello nel ventre molle della politica del tempo (già colpita dall’inchiesta Mani Pulite e poi dalle stragi Falcone e Borsellino).


laterano roma indeciso42

La facciata del Palazzo del Laterano danneggiata e tutte le finestre divelte © Indeciso42


Del resto, come potevano dei villani ignoranti come Provenzano e compari pensare di colpire monumenti e basiliche a loro probabilmente sconosciute per ricattare le istituzioni del tempo? E’ chiaro che qualcuno deve aver suggerito loro come e dove attaccare. Uno di questi potrebbe essere stato l’ex primula nera di Avanguardia Nazionale Paolo Bellini, ritenuto uomo cerniera tra servizi segreti, ‘Ndrangheta ed eversione nera. Sarebbe stato lui a suggerire al boss Antonino Gioè l’idea di colpire i monumenti. “Ti immagini se l'Italia si sveglia e non trova più la Torre di Pisa?”. A parlare di quella inquietante domanda era stato il pentito Giovanni Brusca, che si era nascosto dietro a una porta per origliare il colloquio tra Gioè e l’ex estremista nero (che però smentisce la circostanza ed ogni responsabilità). Sempre rispetto alla figura di Bellini è emerso che l’ex primula nera si trovava nell’Ennese tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 e proprio nel periodo in cui, ad Enna, la Cupola di Cosa nostra, Totò Riina e gli altri al seguito, si riuniva per decidere il piano stragista. L’ex terrorista (recentemente condannato anche in appello quale esecutore della strage di Bologna) però ha sempre detto di essere stato lì per recuperare alcuni crediti.
Intanto, l’anno scorso la procura di Firenze ha indagato Paolo Bellini con l’accusa di essere il ‘suggeritore’ delle bombe del ’93 a Firenze, Roma e Milano.
Non solo Bellini. Secondo l'ex agente di polizia penitenziaria Pietro Riggio a suggerire ai mafiosi di colpire il patrimonio artistico italiano sarebbe stato addirittura Marcello Dell’Utri, co-fondatore di Forza Italia indagato a Firenze proprio come mandante occulto delle stragi del 1993. Secondo i pm di Firenze, l'ex senatore avrebbe istigato i Graviano “a organizzare e attuare la campagna stragista e, comunque, a proseguirla, al fine di contribuire a creare le condizioni per l’affermazione di Forza Italia”.


dellutri berlusconi c imagoeconomica 40186

Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi © Imagoeconomica


Gli utilizzatori finali delle stragi

Sul punto, infatti, si ritiene che la strategia terroristico-eversiva di Cosa Nostra adottata nel 1993 puntava, con le bombe, a imporre allo Stato di "venire a patti", eliminare i trattamenti penitenziari di rigore, di modificare la legge sui collaboratori di giustizia, di chiudere istituti penitenziari - come quelli dell'Asinara e di Pianosa - ritenuti tali da impedire i rapporti tra i capi detenuti e i complici in libertà. Le bombe, però, hanno avuto anche lo scopo di aprire la strada all’ascesa di un nuovo soggetto politico: Forza Italia, partito fondato da Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e Silvio Berlusconi, che per 18 anni ha finanziato Cosa nostra. Pochi giorni prima del fallito attentato all'Olimpico, strage che avrebbe dovuto aver luogo il 22 gennaio 1994 per dare la spallata definitiva allo Stato, Gaspare Spatuzza si trovava a Roma per incontrare Giuseppe Graviano, e mettere a punto gli ultimi preparativi prima della nuova “strage in continente”. Così come gli era stato anticipato, prima di muoversi c'era da attendere l'ordine del capomafia di Brancaccio. Ed è per questo che l'ex boss si recò, accompagnato da Antonino Scarano, anche lui condannato per le stragi del 1993.
Ci recammo presso il bar Doney, in via Veneto a Roma - racconta Spatuzza ai pm di Palermo Francesco Del Bene e Nino Di Matteo - Già fuori c'era Giuseppe Graviano ad attenderci. Aveva un'aria gioiosa e mi disse che avevamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie che avevano portato avanti la cosa”. “Mi fece il nome di Berlusconi. Io gli chiesi se fosse quello di canale 5 e lui rispose in maniera affermativa. Aggiunse che in mezzo c’era anche il nostro compaesano Dell’Utri e che grazie a loro c’eravamo messi il Paese nelle mani”. E per Paese, specificava Spatuzza nel 2014, "intendo l'Italia”. La circostanza fu raccontata dal pentito, uno dei responsabili della strage di via d’Amelio, nel processo sulla trattativa Stato-mafia, vicenda chiave nello sviluppo della strategia stragista di Cosa nostra. In quanto la trattativa tra vertici del Ros e Cosa nostra (nonostante il colpo di spugna a favore degli imputati del processo in Cassazione) avrebbe rafforzato in quest’ultima l’idea che le bombe per ricattare lo Stato funzionassero. Vale a dire che se lo Stato non avesse aperto un canale di dialogo con i corleonesi, probabilmente le stragi del 1993 non ci sarebbero state. Ma la Cassazione non è d’accordo e contribuisce a spargere coltri di fumo su quella pagina di storia, offuscando le verità e parcellizzando i fatti. Un’opera di restaurazione storica in piena regola, come si sono già viste in passato per altre vicende scabrose che hanno riguardato lo Stato profondo italiano, alla quale, soprattutto ultimamente, stanno contribuendo le attuali forze di governo rappresentate da Forza Italia e Fratelli d’Italia. Sono loro, infatti, come ha detto il già procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato lo scorso 19 luglio, “gli utilizzatori finali delle stragi del ’92 e del ’93 se non Forza Italia e Fratelli d'Italia”.

Realizzazione grafica by Paolo Bassani

ARTICOLI CORRELATI

Stragi '93: la procura di Caltanissetta indaga ex poliziotto per depistaggio

Le donne dietro le stragi, tra testimonianze ed identikit

Stragi '93: la procura di Caltanissetta indaga ex poliziotto per depistaggio

Stragi '93: Mori indagato. E contro Tescaroli si scatenano i libellisti

Stragi '93, Rosa Belotti ai pm: ''Io nella foto, ma con via Palestro non c'entro

Strage di via Palestro, non solo mafia: le indagini potrebbero svelare chi allora si alleò con i boss

Strage di via Palestro, Tescaroli: step correlato a trattative con le istituzioni

Strage via Palestro: nota del Sisde parla di una donna ''bruna con i capelli a caschetto’’

Di Matteo: ''In questo Paese una voglia insana di archiviare per sempre verità su stragi e trattativa’’

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos