In un Paese normale la ricerca della verità sulle stragi del 1992 e del 1993 sarebbe una priorità per tutti. Ci vorrebbe una verità completa, senza sotterfugi. Ma il nostro, è risaputo, non è un Paese normale.
Siamo l'Italia, Paese di misteri, silenzi, depistaggi e stragi di Stato.
Appena la magistratura osa aprire un fascicolo per andare fino in fondo seguendo tutte quelle tracce emerse in questi anni di inchieste e processi ecco che si scatena l'inferno.
La politica alza le barricate, forse spaventata che si arrivi a tirar via qualche scheletro dall'armadio, e sulla carta stampata si scatenano i libellisti del potere, gridando allo scandalo e all'oltraggio.
Come accadeva ai tempi della rivoluzione francese, pagati profumatamente da Re e Cardinali, si scagliano contro chi è sgradito al potere.
Una tecnica usata costantemente contro i magistrati del processo Stato-mafia che oggi viene ripetuta contro i magistrati della Procura di Firenze ed in particolare il procuratore aggiunto Luca Tescaroli (nominato dal Csm Procuratore capo alla Procura di Prato).
Sono “colpevoli”, secondo i libellisti di quest'epoca che scrivono sulle pagine de Il Riformista, Il Foglio e Il Dubbio, di aver “osato” mettere sotto inchiesta l'ex generale del Ros dei Carabinieri Mario Mori (nonché ex direttore de servizi segreti civili al tempo del primo governo Berlusconi).
Parlano di gogna mediatica e di calvario, ridicolizzano un'inchiesta che è dovuta proprio per dipanare ogni dubbio che è rimasto aperto in questi anni di inchieste e processi.
Si fanno forti delle solidarietà istituzionali (compresa quella dell'Arma dei Carabinieri) per Mori. Dal fronte politico sono scesi in campo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, il ministro della difesa Guido Crosetto, e poi ancora Maurizio Gasparri e Rita dalla Chiesa.
Ora il pressing, chiesto dallo stesso Mori, è affinché si indaghi sulla presunta fuga di notizie che vi sarebbe stata dopo l'interrogatorio, effettuato a Firenze nei giorni scorsi.
L'ex generale del Ros dei Carabinieri, Mario Mori
Da una parte si chiede l'intervento della Commissione Parlamentare antimafia, dall'altra quello del ministro della Giustizia Carlo Nordio.
All'indecente coro dei giornaloni si affianca l'azione del deputato di Italia Viva, Roberto Giachetti (autore proprio presso Il Riformista), che con un'interrogazione al Guardasigilli ha richiesto di “far ricorso ai propri poteri ispettivi per far luce come sia stato possibile che i contenuti, secretati, degli interrogatori sostenuti del generale Mario Mori davanti alla Dda di Firenze siano poi stati pubblicati da un quotidiano". Al termine dell'interrogatorio, prosegue Giachetti, "il procuratore ha secretato i contenuti e obbligato i presenti a non divulgarli. Nonostante questo, il 6 giugno sull'edizione fiorentina del quotidiano La Repubblica è stato pubblicato un articolo con ampi riferimenti all'interrogatorio del 5 giugno e a uno precedente che doveva restare coperto da segreto investigativo".
In realtà in quell'articolo "La Repubblica" diceva semplicemente che il generale, alle domande dei pm, si sarebbe avvalso della facoltà di non rispondere. Cosa che non era avvenuta un anno addietro quando, diversamente, era stato sentito come “persona informata sui fatti”.
Ovviamente i giornaloni non mancano di “giustificare” l'operato di Mori che in questi anni ha comunque confermato di aver saputo che l'ex membro di Avanguardia Nazionale Paolo Bellini, d'accordo con Roberto Tempesta, maresciallo del nucleo Tutela Patrimonio Artistico dell’Arma dei Carabinieri, aveva aperto un canale di dialogo con Cosa nostra. Non solo. Aveva anche dichiarato di aver ricevuto un biglietto da Tempesta al cui interno erano scritti i nomi dei boss su cui Cosa nostra avrebbe voluto dei favori carcerari in cambio della restituzione di opere d'arte. Un biglietto che non avrebbe conservato e di cui non ha mai riferito all'autorità giudiziaria.
Ed è questo uno dei motivi delle contestazioni. Ma per i giornaloni è tutto nella norma.
Così come nelle loro ricostruzioni sulla storia di Mori tacciono sempre sulle considerazioni gravi che vengono fatte dai giudici che hanno assolto i Carabinieri rispetto a scelte investigative quantomeno discutibili.
Paolo Bellini (tratto da Il Resto del Carlino)
Ad esempio, nella sentenza per il mancato arresto di Provenzano, che vedeva Mori sotto accusa assieme al colonnello Obinu, è scritto: “Le scelte tecnico-investigative adottate dagli imputati (soprattutto quelle di non curare adeguatamente gli spunti investigativi emersi dall'incontro di Mezzojuso), a maggior ragione ove si consideri che esse vennero adottate da esperti Ufficiali di Polizia giudiziaria, inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell'operato dei due e lasciano diverse zone d'ombra che il dibattimento, nonostante lo sforzo profuso dalla Pubblica Accusa, non è riuscito a dipanare".
Mirino su Tescaroli
È il solito cliché. Contro quei magistrati che hanno l'ardire di credere che “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge” l'obiettivo numero uno è quello di denigrare e delegittimare.
Accade oggi, ancora una volta, contro Luca Tescaroli, accusato anche di lasciare scoperta la Procura di Prato e quindi di essere professionalmente inadeguato.
Ma i libellisti dimenticano la storia.
Nel corso della sua carriera Tescaroli si occupò della strage di Capaci. Assieme ai colleghi Francesco Paolo Giordano e Antonella Sabatino ottenne in via definitiva le condanne dei 37 mafiosi (29 ergastoli, tra componenti della Cupola, accusati di avere deciso l'eccidio, ed esecutori materiali).
Il 2 giugno 1997, pochi giorni dopo le richieste di condanna, il magistrato, all'epoca 32enne, sfuggì ad un attentato mentre era in vacanza con la propria fidanzata a Maratea, sulla spiaggia del lido del “Macarro”, in Basilicata. Volevano ucciderlo con un fucile a doppia canna lunga e con un'altra arma a canna corta.
Su quell'attentato indagò la Procura di Potenza. Nel chiedere l'archiviazione al Gip il pm individuò in maniera chiara il contesto di quel progetto di morte e si stabiliva con certezza che il magistrato fosse l'obiettivo degli attentatori a causa dell'impegno profuso, quale magistrato della Dda di Caltanissetta, nelle inchieste e nei processi contro persone imputate di appartenenza ad organizzazioni criminali di stampo mafioso siciliane, quali Benedetto Santapaola, Giuseppe Madonia, Antonio Ferro e contro i presunti mandanti ed esecutori delle stragi di Capaci e di via d'Amelio di Palermo.
Il procuratore aggiunto, Luca Tescaroli
Tescaroli si occupò anche del processo sul fallito attentato all’Addaura e assieme al collega Nino Di Matteo, indagò già a Caltanissetta su Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri (iscritti nel fascicolo con i nomi di “Alfa e Beta” come possibili mandanti esterni delle stragi).
Ciò avvenne grazie alle dichiarazioni del pentito Salvatore Cancemi, deceduto nel 2011, che per primo parlò dei contatti diretti tra i due politici di Forza Italia e i vertici di Cosa nostra.
In pochi ricordano che nell'inchiesta nei confronti dell'ex senatore l'ex premier Di Matteo e Tescaroli furono lasciati soli con uno scollamento di fatto con il resto della procura di Caltanissetta.
Un'inchiesta che si concluse con l'archiviazione da parte del Gip Tona, ma in cui venne messo nero su bianco come “gli atti del fascicolo hanno ampiamente dimostrato la sussistenza di varie possibilità di contatto tra uomini appartenenti a Cosa Nostra ed esponenti e gruppi societari controllati in vario modo dagli odierni indagati (Berlusconi e Dell’Utri)”.
Oggi, dopo la morte di Silvio Berlusconi, a Firenze è ancora aperto il fascicolo sui mandanti esterni nei confronti di Marcello Dell'Utri e al contempo sono stati compiuti approfondimenti nei confronti di Paolo Bellini, sulla possibile presenza di donne nei luoghi delle stragi.
L'inchiesta su Mori è solo una delle tracce seguite per la ricerca della verità su quella terribile stagione. Un atto dovuto.
E mentre lo Stato anti-antimafia, con riforme della giustizia e disegni di legge a stampo piduista, getta la sua maschera i libellisti del potere si accaniscono contro Tescaroli e quei magistrati come Nino Di Matteo, Giuseppe Lombardo, Sebastiano Ardita, Nicola Gratteri ed altri, che non si accontentano dei frammenti di verità.
Marcello Dell'Utri e Silvio Berlusconi
Il problema, come abbiamo scritto in altre occasioni, è che il nostro Paese è nelle mani di un sistema criminale integrato al suo interno. Fino a quando non sarà smascherato e processato, fino a quando i cittadini non prenderanno coscienza pretendendo giustizia e verità, la nostra sarà una storia destinata a ripetersi.
Ma la vera infamità è quella posta in essere dai giornali di regime. Con giornalisti, di destra e di sinistra, che ricordano, come abbiamo detto all'inizio di questo articolo, i libellisti dei tempi alla vigilia della rivoluzione francese. Buffoni scribacchini al servizio del Re e soprattutto al servizio del Dio denaro. Ieri come oggi non è cambiato nulla. Anzi è peggiorato tutto.
Foto © Imagoeconomica
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