Depositate le motivazioni della sentenza d'Appello. L'ex pm ha gettato ombre su Procura di Milano e consiglieri Ardita e Mancinetti
La Corte d’Appello di Brescia non usa mezzi termini: Piercamillo Davigo ha gettato ombre su Procura Milano e Csm. Così si legge nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 7 marzo la Corte ha confermato la condanna a un anno e 3 mesi l'ex pm di Mani Pulite ed ex consigliere del Csm, difeso dagli avvocati Davide Steccanella e Francesco Borasi, per la rivelazione di segreto d'ufficio sui verbali secretati resi alla procura di Milano dall'avvocato Piero Amara sulla presunta esistenza della loggia Ungheria.
Davigo ha sempre detto di aver agito "in buona fede" per "ripristinare la legalità”. Eppure, secondo i giudici, con la sua condotta ha messo in atto "una serie di irrituali e illecite confidenze, che poi hanno sortito quell'effetto finale di una fuga di notizie 'senza eguali precedenti', già stigmatizzata dall'Autorità giudiziaria umbra".
Piercamillo Davigo e Davide Steccanella
Non solo: “Sarebbe stato sufficiente per questo, così da avallare quanto meno la buona fede dell'imputato, che egli avesse indirizzato" il pm di Milano Paolo Storari, da cui aveva ricevuto copia dei verbali, "alla Procura Generale" di Milano e, "se tale strada nell'ottica personale del dott. Davigo non fosse stata percorribile in ragione della ritenuta incapacità del suo reggente, che lui stesso avesse compulsato il Comitato di Presidenza nella sua collegialità, rimettendo a tale organo se e in che modo dovesse avvenire la formalizzazione della vicenda e i conseguenti comportamenti da adottare sia per smuovere l'eventuale stallo all'indagine meneghina sia per tutelare i soggetti, che ne erano coinvolti, ivi compresa la figura" di Sebastiano Ardita, parte civile nel processo con l'avvocato Fabio Repici.
I giudici di secondo grado nelle 115 pagine di motivazioni spiegano che Davigo ha "portato a conoscenza di una selezionata platea di destinatari notizie coperte da segreto investigativo attraverso una serie di incontri informali, pur consapevole di gettare una sinistra luce sull'operato della Procura della Repubblica" di Milano "e sui due colleghi del Csm, dottori Mancinetti e Ardita".
L'avvocato Piero Amara
Al centro della vicenda c'erano i verbali su una inesistente loggia resi da Amara tra dicembre 2019 e gennaio 2020 nell'ambito dell'indagine milanese sul cosiddetto falso complotto Eni. Verbali consegnati a Davigo nell'aprile successivo dal pm di Milano Paolo Storari (assolto in via definitiva) per autotutelarsi di fronte, a suo dire, ad una presunta inerzia dei vertici del suo ufficio. I giudici d'appello spiegano che "non è compito di questa Corte comprendere la ragione" per cui Davigo abbia agito in quel modo, anche perché il movente per il reato di rivelazione è "irrilevante".
Ad ogni modo, "l'inconsistenza della tesi difensiva" di Davigo, per i giudici bresciani "si evidenzia, in maniera eclatante, con riferimento alla comunicazione dell'indagine alle collaboratrici di ufficio dell'imputato", di cui "non si vede, francamente, la ragione per la quale costoro dovessero essere messe al corrente del contenuto accusatorio riportato nei verbali dell'avvocato Amara, tanto più che si trattava di atti che mai erano stati formalmente acquisiti dal Csm e che, pertanto, non erano atti dell'ufficio".
Davigo, con l'avvocato Davide Steccanella, presenterà ricorso in Cassazione contro la condanna.
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