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I giudici ribaltano il processo al superpoliziotto Cortese

"Non vi erano motivi di sorta perché gli imputati si orientassero dolosamente, e addirittura all'unisono, per danneggiare la Shalabayeva". È quanto scrivono i giudici della Corte di Appello di Perugia nelle motivazioni della sentenza con cui hanno assolto tutti gli imputati nel processo sull'espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua avvenuta nel 2013.
L’espulsione avvenne secondo una procedura legittima e perfettamente aderente alla legge, ribadiscono in più passaggi i giudici d’appello.
Il 9 giugno scorso il collegio, presieduto da Paolo Micheli, ha assolto ''perché il fatto non sussiste'', ribaltando il verdetto di primo grado, i 'superpoliziotti' Renato Cortese e Maurizio Improta, con Francesco Stampacchia, Luca Armeni, Vincenzo Tramma, Stefano Leoni e il giudice di pace Stefania Lavore. "Qualcosa di sconosciuto agli odierni imputati, al contempo di perfettamente noto alla persona offesa e ai suoi difensori (il permesso di soggiorno lettone), avrebbe chiuso la storia in quattro e quattrotto - si legge nelle 345 pagine di motivazioni - evitando presunti sequestri di persona, sprechi di inchiostro in sede politica e giornalistica, da ultimo anche anni di processo, torniamo a quanto accadde veramente".
La storia ruota intorno al rimpatrio in Kazakistan, nel maggio 2013 della moglie e della figlia del sedicente dissidente Muktar Ablyazov, latitante in ambito internazionale. A maggio del 2013 a Roma era stata condotta una perquisizione nella villa di Casal Palocco a Roma dove si riteneva che il ricercato si trovasse. L’irruzione non aveva dato l’esito sperato. Ma tra le persone presenti, la moglie, aveva presentato un documento che appariva palesemente contraffatto e si accreditò come Alma Ayan. Per questa ragione, priva di un titolo regolare per rimanere in Italia, fu accompagnata al Centro di identificazione ed espulsione, il Cie di Ponte Galeria, e da lì rimpatriata con la figlia su un aereo che l’ambasciata kazaka aveva noleggiato per l’occasione. Mai la donna, né i suoi legali esibirono i documenti autentici, né fu richiesto asilo politico.
Demolito anche l’argomento fatto proprio dal tribunale secondo il quale non fu Alma Shalabayeva a insistere su un nome palesemente falso ma la polizia a voler confondere le acque non rappresentando con sufficiente chiarezza che la donna era proprio la moglie di Ablyazov così da ingannare l’autorità giudiziaria. “Dove sono il nascondimento, il sotterfugio, la volontà di trarre in inganno, se solo un minus habens avrebbe potuto non comprendere che quella donna era senz'altro la compagna del latitante sfuggito alla cattura, già identificata in passato come Alma Shalabayeva ma che ora insisteva pervicacemente nel sostenere di chiamarsi Alma Ayan, usando un passaporto con pagine strappate, caratteri non originali e strafalcioni in inglese?”, hanno scritto i giudici. “Pare alla Corte, in buona sostanza, che - prima ancora di essere infondato - questo profilo dell'accusa sia oggettivamente lunare e incomprensibile, già in termini di elementare buon senso”.


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Il dirigente della Polizia di Stato, Renato Cortese


Shalabayeva, hanno scritto sempre o giudici, "pur essendo in grado ab initio di documentare la propria legittima permanenza in Italia con l'esibizione del permesso di soggiorno lettone, si astenne dal farlo (per motivi più o meno giustificabili, ma comunque così decise di determinarsi); ancora a monte, essendo arrivata in Italia a settembre 2012, non palesò mai l'intenzione di chiedere asilo - scrivono i giudici d'Appello - che invece aveva ottenuto un anno prima nel Regno Unito (anche qui non interessa la ragione, ma non sembra peregrino ipotizzare che non volle trovarsi in condizione di dover tornare in Gran Bretagna, territorio dal quale il marito in primis preferiva ormai tenersi alla larga), preferendo "nascondersi" dietro l'identità di Alma Ayan e iscrivere la figlia a scuola con il nome di Alua Ayan; non mutò atteggiamento neppure quando vide per facta concludentia che il permesso di soggiorno lettone aveva funzionato appieno per Bolat Seralyev, tornato a casa nel giro di poche ore". Shalabayeva "continuò a dire di chiamarsi Alma Ayan pur quando era emerso il riscontro della Polaria all'assunto della falsità del passaporto centrafricano, non essendo in alcun modo credibile che la sera del 29 maggio decise di rivelare tutta la verità a una dozzina di persone (sul punto, è stata smentita anche da coloro che sono stati ritenuti estranei alle ipotesi di reato qui contestate); non chiese asilo neppure durante la permanenza al Cie (di Ponte Galeria ndr), e incontrando l'Avv. Federico Olivo non affrontò l'argomento, né gli fece parola di cosa, a suo dire, aveva raccontato la sera precedente al personale dell'Ufficio Immigrazione; si presentò ancora come Alma Ayan al Giudice di pace, e quando si rese conto che era venuto fuori in qualche modo il suo vero cognome non accolse l'invito dell'interprete ad offrire un contributo chiarificativo".
''Dalla prima veloce lettura delle motivazioni mi sembra che la Corte d'appello di Perugia abbia colto la plateale distorsione logica che aveva animato la sentenza di primo grado e che abbiamo eccepito e contestato nel corso del giudizio di appello. Mi sembra una sentenza seria, ponderata e che non fa sconti a nessuno come è giusto che accada''. Così all'Adnkronos l'avvocato Bruno Andò, difensore di Maurizio Improta. ''Mi auguro che possa rappresentare l'ultimo capitolo di una storia sgradevole, totalmente priva di consistenza e che è stata animata da un incomprensibile sentimento di avversione nei confronti di un apparato dello Stato - sottolinea il penalista - per motivi sui quali sarebbe bello qualcuno indagasse, e dalla volontà di colpire subdolamente degli specchiati funzionari di Polizia pur di legittimare impropriamente la posizione, finalmente ritenuta illecita, di una donna che viveva in Italia clandestinamente, anche a costo di distorcere il funzionamento della giustizia''.

Renato Cortese e altri poliziotti avevano già titoli per fare carriera
Renato Cortese
e gli altri poliziotti, tra cui Maurizio Improta avevano già "titoli per fare carriera di ben più elevata consistenza e validi a prescindere da eventuali avvicendamenti ai posti di comando del Ministero dell'Interno" rispetto a una eventuale "fiche" ipoteticamente legata alle presunte irregolarità compiute nel rimpatrio di Alma Shalabayeva, hanno scritto ancora i giudici.
"Ma è seriamente credibile - domanda provocatoriamente la Corte nelle motivazioni - che il Cortese o altri, pensando a una fiche da spendere in futuro e con l'ovvia incertezza di poterla concretamente incassare, per ciò solo si resero disponibili a commettere un vero e proprio campionario di nefandezze culminato in un 'crimine di eccezionale gravità'?".

Mukhtar Ablyazov
La possibilità di trovare in rete dati dai quali dedurre che Mukhtar Ablyazov fosse un perseguitato politico "era pari, se non ragionevolmente assai inferiore, a quella di imbattersi nella notizia che, per risanare la banca prima in mano sua, il governo del Kazakhstan dovette effettuare versamenti per 3,58 miliardi di dollari americani". Il collegio sostiene che in primo grado quel Paese era stato descritto come "messo all'indice, nella comunità internazionale, perché violava i diritti umani anche praticando la tortura e l'eliminazione fisica degli oppositori". Si chiede quindi "per quale singolare ragione, Cortese, Improta o chicchessia avrebbero dovuto 'compiacere' un regime che il mondo intero aveva messo al bando?". Nella motivazione viene quindi citata una deposizione di Alessandro Pansa secondo il quale nel 2013 "dal comitato Onu per i rifugiati non erano pervenute segnalazioni negative su quello Stato".

Foto © Imagoeconomica

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