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"Iniziamo con una certa emozione questa udienza che ha dietro un lavoro di 15 anni". È con queste parole che il pubblico ministero Antonino Fanara ha iniziato il 20 febbraio, assieme alla collega Agata Santonocito, la requisitoria nell'ambito del processo in corso davanti al Tribunale di Catania a carico dell’imprenditore ed editore del quotidiano La Sicilia di Catania Mario Ciancio Sanfilippo, rinviato a giudizio nel giugno 2017 con l’accusa di concorso esterno alla mafia.
Le parti civili del processo – che si celebra davanti il giudice Roberto Passalacqua - sono l’associazione Libera, il Comune di Catania, i fratelli del commissario Beppe Montana, rappresentati dall’avvocato Goffredo D’Antona e l’Ordine dei giornalisti di Sicilia con l’avvocato Dario Pastore. L’editore, invece, è difeso dagli avvocati Giulia Bongiorno e Carmelo Peluso.
La vicenda processuale di Ciancio è passata da tre procuratori della Repubblica – Enzo D’Agata, Giovanni Salvi e Carmelo Zuccaro – due udienze preliminari e anche dalla corte di Cassazione. Nel 2012 era stata la stessa procura a volere l’archiviazione dell’indagine ma a il giudice Luigi Barone aveva respinto la richiesta disponendo un supplemento di indagini. La giudice Gaetana Bernabò Distefano nel 2015 aveva decretato il non luogo a procedere. Proscioglimento poi annullato con rinvio dalla Cassazione con il rinvio a giudizio del 2017 disposto dalla gup Loredana Pezzino. "Noi in questa requisitoria dimostreremo che Ciancio non solo era amico di Cosa Nostra, non era certo vittima, e si avvantaggiava dei servizi della mafia ponendo in essere delle condotte che erano un contributo causale all’associazione mafiosa", ha continuato Fanara sottolineando la complessità del processo e aggiungendo che Mario Sanfilippo è stato una delle personalità "più potenti non solo di Catania ma di tutta la Sicilia". "Divenne immediatamente giornalista, ma subito dopo imprenditore. Imprenditore e inizialmente soprattutto editore" del quotidiano "La Sicilia ma vi ricordo anche che il Giornale di Sicilia, come vedremo l'imputato aveva delle quote, ma anche la Gazzetta del Sud o La Gazzetta del Mezzogiorno".
Già il giudice per le indagini preliminari - ha dichiarato Fanara - a seguito di una richiesta di archiviazione che definirei tecnica e su cui non spenderei altre parole, aveva all’epoca imposto al pubblico ministero di esercitare l’azione penale, poi ulteriori inchieste, perché già con le fonti di prova che all’epoca vi erano, che vi assicuro erano molto inferiori a quelle di oggi, aveva ritenuto che dagli episodi sopra valutati c’è certamente ‘un rapporto sinallagmatico’ instauratosi tra l’odierno indagato e gli esponenti di Cosa Nostra”.
Insieme alla figura di Ciancio sono finiti sotto la lente d’ingrandimento affari, in particolari quelli legati ai centri commerciali Porte di Catania e Sicilia Outlet Village. Inoltre, durante la requisitoria, vi è stata la ricostruzione storica delle dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia (tra cui Di Carlo Francesco, Sino Angelo, Ferone Giuseppe, Catalano Giuseppe, Di Giacomo Giuseppe Maria, Di Raimondo Natale, Squillaci Francesco, Avola MaurizioD’Aquino Gaetano, Giuliano Antonino, Raffa Giuseppe, Campanella Francesco e La Causa Santo) e la gestione dell’informazione attraverso il quotidiano cartaceo.
Santonocito ha ripercorso la storia della mafia catanese dagli anni ’60 in poi, passando per gli anni ’70, quando Calderone era rappresentante provinciale di Cosa Nostra e Santapaola capo decina. “All’epoca (negli anni ’70, ndr), la mafia contava 30-35 uomini d’onore a Catania. Non tanti, ma quanti bastavano per mettere l’intera città sotto il tallone della mafia”. Poi l’ascesa di Nitto Santapaola e l’uccisione di Calderone, voluta a Palermo e commissionata proprio a Santapaola, nel settembre del 1978; con Santapaola che successivamente, a gennaio del 1979, divenne capo provinciale di Cosa Nostra. Un periodo in cui, ha sostenuto la Pm, a Catania molti politici, imprenditori e mafiosi andavano a braccetto.
Il magistrato Santonocito si è poi concentrata sull’imputato, ricostruendo le tesi dei collaboratori di giustizia, partendo dalle parole del pentito Giuseppe Ferone, che avrebbe detto: “Ciancio è n’amicu, si ci po’ parrari”; e proseguendo con Angelo Siino, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina. Siano avrebbe riferito un episodio in cui il boss Ercolano si sarebbe lamentato di un articolo pubblicato su La Sicilia, andando su tutte le furie. Tra i testimoni sentiti in aula, poi, è stato citato anche Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino.
Poi è stata la volta della ricostruzione della testimonianza di Francesco Squillaci, il collaboratore di giustizia che ha riferito di aver organizzato e compiuto un finto attentato a casa di Ciancio, che sarebbe stato chiesto a Cosa Nostra, a detta del pentito, dallo stesso Ciancio, il quale nell’estate del 1990 avrebbe avuto bisogno di lavorare sulla propria immagine. “Gli fu riferito - ha aggiunto la Pm - che Ciancio era un aggancio importante per la famiglia di Cosa Nostra catanese perché aveva agganci nel mondo politico e nel tribunale di Catania”.
"Sia pure sinteticamente - ha concluso il pubblico ministero - e con maggiore estensione troverete nella memoria i maggiori riferimenti alle fonti di prova a tutto quello che vi ho esposto. Alla fine della requisitoria queste dichiarazioni che ho esposto, rispetto alle quali ho indicato gli elementi di riscontro, verranno messe insieme agli altri elementi che vi esporrà il collega e unitariamente andremo a formare per voi il quadro che, a nostro avviso, dimostra la fondatezza dell'accusa nei confronti di Ciancio Filippo Mario".
La prossima udienza è stata fissata per il 6 marzo ma con ogni probabilità i pm concluderanno la requisitoria soltanto il 20 marzo.

Foto © Imagoeconomica

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