Bocciata dalla Cassazione la richiesta del falso pentito, che si riteneva "vittima di un errore giudiziario"
Non ci sarà alcun indennizzo economico per Salvatore Candura, 61 anni, il falso pentito che con le sue dichiarazioni avrebbe depistato le indagini sulla strage di via d’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta. La parola definitiva è stata pronunciata dalla Cassazione. Candura aveva presentato istanza di riparazione alla Corte d'appello di Catania dopo che era stato assolto definitivamente - nel procedimento di revisione - dal furto della Fiat 126 utilizzata per la strage del 19 luglio del 1992. La Corte etnea ha rigettato l'istanza del palermitano e questi aveva presentato ricorso davanti alla Cassazione e gli ermellini della quarta sezione (presidente Patrizia Piccialli, relatore Eugenia Serrao) hanno confermato la decisione dei giudici etnei. I magistrati di Catania con ordinanza dello scorso anno hanno evidenziato che "le dichiarazioni del Candura abbiano indubbiamente dato causa all'errore giudiziario che ha portato alla condanna di patteggiamento e che non sia prova di violenze fisiche e psicologiche subite dal medesimo ad opera delle Forze dell'ordine per costringerlo a confessare un reato non commesso". L'ex collaboratore di giustizia per 10 anni ha beneficiato del programma di protezione per i pentiti e in questo lungo periodo non ha mai ritrattato le sue dichiarazioni - ritenute false - e non ha mai riferito all'autorità giudiziaria delle violenze che avrebbe ricevuto. Secondo i giudici etnei "pur non essendo dubbio che Candura sia stato indotto a rendere le dichiarazioni che hanno poi costituito l'avvio dell'attività di depistaggio, non sia stato provato che egli fosse vittima di pressioni psicologiche e atti di violenza fisica tali da azzerare la sua volontà, essendo più verosimile che egli sia stato indotto alle dichiarazioni autoaccusatorie con la prospettazione di vantaggi di varia natura, non potendosi pertanto escludere che la falsa confessione sia stata frutto di un atto di autodeterminazione che, per quanto condizionato, è rimasto almeno in parte frutto di una libera scelta, ispirata da valutazioni di convenienza". Falsi racconti che di fatto sono ostativi al riconoscimento dell'indennizzo economico. La difesa di Candura nel presentare ricorso in Cassazione ha evidenziato che "la condanna oggetto di revisione fosse derivata anche da false valutazioni dell'autorità giudiziaria non indotte unicamente dall'interessato, segnatamente i colloqui investigativi avuti da Candura, all'interno del carcere, con Arnaldo La Barbera il 12 settembre 1992, prima dell'interrogatorio del 13 settembre 1992, e con Vincenzo Ricciardi il 19 settembre 1992, prima dell'interrogatorio del 3 ottobre 1992, nel corso del quale si dichiarò responsabile del furto menzionato nella sentenza di patteggiamento". Condanna del 9 marzo 1994 che poi è sfociata nell'assoluzione nel procedimento di revisione. Secondo i giudici della Cassazione l'assoluzione di Candura nel processo di revisione che si è celebrato a Catania “è intervenuta a seguito della prova evidente della sua innocenza" perché la sua confessione è stata desunta dalla prova "di un vero e proprio depistaggio, molto ben orchestrato... tanto da resistere al vaglio giurisdizionale".
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