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Nella relazione evidenziato lo stato di abbandono degli istituti penitenziari e degli operatori di polizia

I boss detenuti continuano a comandare dal carcere, a gestire i propri affari e dare ordini, (anche di morte ndr), ai loro affiliati in stato di libertà, incrementando così la loro capacità economico-patrimoniale e quella dell’associazione di riferimento".
A questo si aggiungono: falle nel 41 - bis, problemi "strutturali" delle carceri mai risolti e "aspetti di criticità e di debolezza degli strumenti penitenziari”, nonché un evidente stato di abbandono degli operatori della polizia penitenziaria.
È questo il quadro che la commissione parlamentare antimafia ha illustrato nella relazione finale, resa pubblica nei giorni scorsi, sul regime carcerario e dell'ordinamento penitenziario.
Nel documento, il cui proponente è stata la deputata Stefania Ascari, viene spiegato che nelle strutture carcerarie sussistono delle problematiche gravi per quanto riguarda la "gestione dei detenuti sottoposti dal regime previsto dall’articolo 41-bis, nel senso che di fatto non consentono (le strutture ndr) di garantire il rispetto del divieto di comunicare tra soggetti appartenenti a diversi gruppi di socialità, imposto dalla legge". L'unica eccezione è l'istituto di Sassari dove i detenuti sono suddivisi in "varchi", ossia sezioni composte da quattro camere detentive. In tal modo le sezioni sono "logisticamente separate" tra loro. Tutti gli altri reparti non corrispondono al dettato normativo, perché le sezioni sono strutturate in maniera differente: "le camere detentive, infatti, sono una di fronte all’altra e spesso attigue, per cui diventa complicato impedire che i detenuti dirimpettai parlino tra di loro". I detenuti non dovrebbero nemmeno incontrarsi, "eccetto che tra appartenenti allo stesso gruppo di socialità. Invece, proprio per le ragioni strutturali degli istituti, sono allocati in camere detentive una di fronte all’altra, nello stesso corridoio, con i cosiddetti blindati aperti e, quindi, con la possibilità di comunicare". I detenuti, si legge, "non solo si possono vedere, stando uno di fronte all’altro, ma, parlando ad alta voce all’interno della propria camera, possono essere sentiti anche dal compagno di pena che sta a fianco, anche se appartiene ad un altro gruppo di socialità, e, in tal modo, possono comunicare tra loro". Passaggi di comunicazione tra i detenuti avvengono anche attraverso espressioni del volto e segnali del corpo. Di fatto, quindi, il divieto di non comunicare tra detenuti non viene rispettato, con il rischio che i messaggi filtrino anche all’esterno del carcere. L’inchiesta ha messo ancor più in evidenza la condizione delle carceri italiane che quotidianamente vivono situazioni più che allarmanti: sono noti grazie anche alle cronache "i frequenti tentativi di introduzione e/o rinvenimenti di cellulari, di droga e il compimento di vari traffici illeciti, con cui si devono misurare ogni giorno quanti operano nel carcere". Al fine di risolvere questo problema la commissione ha sottolineato che occorre "una massiccia politica di investimento per l’edilizia penitenziaria. Gli istituti di pena necessitano di manutenzione ordinaria, da effettuarsi in maniera costante". Anche la Polizia Penitenziaria necessita di alcuni interventi immediati: una massiccia assunzione di agenti, maggiore difesa del personale, corsi di aggiornamento "per il personale del G.o.m" (Gruppo operativo mobile ndr), equipaggiamento più moderno ma "anche di strumenti tecnologici avanzati, che possono individuare oggetti non consentiti (ad esempio telefoni cellulari) e/o mezzi di ricerca di sostanze stupefacenti sia per prevenire l’introduzione in carcere che il rinvenimento delle stesse nelle celle".

Spezzare i legami associativi
Nell’ambito di un’efficace politica antimafia, un ruolo importante deve essere attribuito anche agli "strumenti che sono in grado di spezzare, concretamente, il legame esistente tra il singolo e l’associazione criminale di appartenenza". Tra questi strumenti, sottolinea la commissione, ci sono delle verifiche "sulla posizione economico - patrimoniale dei soggetti sottoposti al regime speciale, per comprendere se la capacità economico-patrimoniale degli stessi si sia accresciuta, anche durante la detenzione, e, quindi, poter desumere che stiano continuando a esercitare il loro potere anche dall’interno, allo scopo di intervenire immediatamente e di recidere il loro legame economico con l’esterno".
In merito alle misure e alle indagini patrimoniali si è espresso anche il Procuratore della Repubblica di Lagonegro Gianfranco Donadio. Quest'ultimo ha spiegato che "dal punto di vista della strategia rivolta a interrompere il legame criminogeno si può guardare alla risposta patrimoniale, al contrasto economico e finanziario, come una politica trattamentale e di pari livello rispetto a quella, diciamo, meramente restrittiva. Quindi non vedo alcun ostacolo a fondare un sistema e non facoltativo, ma obbligatorio di indagini patrimoniali nei confronti dei soggetti ristretti al regime di cui all’articolo 41-bis e delle persone, in senso lato, vicine, legate cioè a questi soggetti da vincoli di natura criminale, parentale".

Dap non ha saputo gestire la diffusione del virus nelle carceri
Sul tema delle rivolte del marzo 2020, nella relazione sono stati ancora una volta riportati i numeri di quel dramma: 13 morti tra i detenuti, decine di feriti tra il personale di Polizia Penitenziaria. Le cause vengono reperite nell’insufficiente "numero di personale impiegato, e nella conseguente mancata copertura di tutti i posti di servizio di vigilanza, nella scarsità di strumenti tecnologici utilizzata, nell’inesistente equipaggiamento degli agenti per fronteggiare simili situazioni, nella mancata realizzazione di nuclei di pronto intervento interno, nella eccessiva libertà di movimento concessa ai detenuti nelle sezioni, caratterizzate dalle cosiddette 'celle aperte'".
Le ‘celle aperte’, per inciso, si sono rivelate negli anni un totale fallimento: la polizia penitenziaria sarebbe uscita dalle sezioni, che sono rimaste completamente aperte, ingovernabili, sotto il controllo esclusivo dei detenuti.
Una situazione che, di fatto, genera un vuoto che le gerarchie criminali possono riempire.
Tra le problematiche presenti in questa normativa vi sono quelle trattate nel libro ‘Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere’ scritto dal consigliere togato al Csm Sebastiano Ardita.
In conclusione, queste rivolte e questi disordini sono figli di un punto di caduta di anni di disattenzione rispetto a questa realtà.  Nella relazione, nella parte dedicata all'emergenza Covid, si fa riferimento anche all’ipotesi “fondata, ma ancora da verificare sul piano processuale – si legge – che dietro le proteste, le sommosse, i tumulti e le violenze, ma anche dietro le manifestazioni esterne di appoggio, ci possa essere stata una regìa o un sostegno di matrice mafiosa, rende ancora più urgente l’adozione di metodiche e tecnologie tese ad impedire che i detenuti, anche di elevata pericolosità, possano comunicare con l’esterno. Sul punto, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha informato la Commissione che i Procuratori distrettuali più direttamente interessati al controllo dei detenuti sottoposti al regime differenziato ex art. 41-bis O.P., per l’elevato numero di detenuti sottoposti a tale regime, hanno condiviso l’esigenza di una ‘schermatura degli istituti penitenziari per bloccare il fenomeno dell’uso dei telefoni cellulari”. A questo proposito la commissione sottolinea come “nelle sezioni detentive sempre più frequentemente vengono rinvenuti telefonini, smartphone, sim card, in uso ai detenuti. Questa situazione, oltre a consentire le comunicazioni con l’esterno anche per programmare o decidere l’esecuzione delle attività criminali, ha verosimilmente agevolato la concertazione delle rivolte dei primi di marzo del 2020″. Quindi Palazzo San Macuto fa un paragone tra “la concomitanza delle proteste avvenute nelle carceri su tutto il territorio nazionale e dalla presenza di presidi dei familiari e di manifestazioni a sostegno all’esterno degli istituti stessi. Non a caso alle rivolte non hanno partecipato i vertici delle organizzazioni mafiose e i soggetti ristretti all’art. 41-bis O.P., né può, d’altronde, ritenersi che i detenuti sottoposti a questo regime differenziato siano in ambienti assolutamente impermeabili alle comunicazioni con l’esterno o che non possano sapere cosa succede nel proprio carcere o che non riescano, ipoteticamente, a dirigere o fornire il placet all’avvio e all’esecuzione di iniziative anche concertate o complesse, come gli eventi del marzo 2020. A riprova, si ricorda il rinvenimento, quattro mesi prima delle rivolte, di tre telefoni cellulari nel reparto 41-bis O.P. di Parma”.
Ciò che ha scritto la commissione antimafia va in diretto contrasto con quanto aveva riportato qualche mese fa la commissione ispettiva del Dap. Nella relazione finale aveva scritto infatti che non vi era traccia di una regia occulta diretta della "criminalità organizzata (Cosa Nostra, 'Ndrangheta e Camorra, ndr) e nemmeno una matrice politica anarchica o insurrezionalista" dietro le rivolte nelle 22 carceri italiane verificatesi il 7 e il 10 marzo 2020.
Fatto sta che ci sono stati 13 morti e che lo Stato si è arreso ai rivoltosi senza neppure muovere un dito. Dopo le rivolte non è cambiata una sola regola, non è stata fatta una sola analisi sul disagio dei detenuti e degli agenti, hanno continuato ad essere occultati i dati sulla crescita degli eventi critici e non c’è stato un colpevole tra i violenti né un responsabile tra esponenti di governo e di amministrazione.

Per leggere la relazione: clicca qui!

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