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La Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Milano con cui il 16 giugno 2021 aveva negato per la seconda volta in un anno i benefici penitenziari a Giuseppe Barranca, boss di Cosa Nostra, 66 anni di cui gli ultimi 25 trascorsi dietro le sbarre e fino al 2008 in regime di carcere duro al 41-bis.
La notizia è stata riportato da 'La Nazione'. Secondo quanto riferisce il quotidiano l'uomo sta scontando gli ergastoli nel penitenziario di Opera per la strage di Capaci e del 1993 (dieci morti): via dei Georgofili a Firenze, via Palestro a Milano e via del Fauro a Roma (il fallito agguato al giornalista televisivo Maurizio Costanzo).
Secondo quanto emerso dalle indagini e delle sentenze Barranca era tra coloro che hanno pianificato ed eseguito l’attentato (di cui lunedì si ricorderà il trentesimo anniversario) costato la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie magistrato Francesca Morvillo e agli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Nello specifico il palermitano di Brancaccio ebbe un ruolo-chiave nel reperimento dell’esplosivo piazzato sotto l’autostrada.

Ma secondo la Cassazione il Tribunale di Sorveglianza di Milano avrebbe rigettato la richiesta dei benefici in base ad "una motivazione dalla matrice spiccatamente eticizzante, che indulge in più punti a osservazioni ispirate da moralismi". Nel pratico: pur sottolineando la condotta carceraria "ineccepibile" del condannato (niente rilievi disciplinari, formazione scolastica e disponibilità all’attività lavorativa) e citando la relazione datata 14 giugno 2021 in cui da Opera hanno fatto sapere che Barranca ha riconosciuto "i propri sbagli" e ha preso coscienza "del proprio passato criminale e dei reati gravissimi commessi", i giudici meneghini si sarebbero fermati "su posizioni di stigma della scelta di non collaborazione" e avrebbero orientato la loro decisione "su una valutazione “morale”" della "enorme sproporzione tra le condotte delittuose e l’appartenenza mafiosa ad altissimo livello, da un lato, e la ripresa di una vita corretta e coerente in carcere, dall’altro".

Dopo il primo stop al permesso premio da parte dei giudici milanesi, il 22 giugno 2020 la Suprema Corte aveva disposto un nuovo esame da parte del Tribunale di Sorveglianza, basando la sua decisione sul mutamento del quadro normativo generato dalla sentenza numero 253 del 2019 della Consulta. Una sentenza che ha dichiarato l’incompatibilità con i principi costituzionali dell’articolo 4-bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevedeva che ai detenuti condannati per associazione mafiosa (e non reclusi al 41-bis) potessero essere concessi permessi premio "anche in assenza della collaborazione con la giustizia" e pur in presenza di "elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti".

Foto © Imagoeconomica

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