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Il pm Pierangelo Padova: "Chiedo assoluzione perché gli imputati non avevano la certezza dell'innocenza delle persone accusate"

E' alle battute finali il Processo in cui sono imputati il maresciallo dei carabinieri Saverio Masi (difeso dal legale Claudia La Barbera) e il collega Salvatore Fiducia (difeso dal legale Mario Di Trapani) accusati di calunnia e diffamazione nei confronti di sette ufficiali dell’arma Gianmarco Sottili, Francesco Gosciu, Michele Miulli, Fabio Ottaviani, Gianluca Valerio, Antonio Nicoletti e Biagio Bertodi,  difesi da due anni dagli avvocati Ugo Colonna per Sottili, Gallino Monatana per Nicoletti e Filippo Inzerillo per Ottaviani. Gli altri legali hanno tutti rinunciato al mandato.
Nell'udienza che si è tenuta il 23 maggio scorso il pubblico ministero Pierangelo Padova ha richiesto davanti al presidente della Corte Marina Manisola che "entrambi gli imputati vengano assolti perché il fatto non costituisce reato sussistendo il ragionevole dubbio sulla prova dell'elemento soggettivo" ossia i due imputati "non sapevano della totale innocenza delle persone che stavano accusando" precisando tuttavia che "sono state mosse accuse alla leggera" e che "non hanno trovato riscontro" in fase di dibattimento.
Per fare chiarezza il reato di calunnia per poter essere dimostrato occorre verificare che l'accusatore al tempo in cui ha mosso la presunta calunnia era a conoscenza della totale innocenza dell'accusato.
Infatti gli avvocati difensori si sono mossi per sostenere che quanto aveva dichiarato Masi era vero, basandosi sul materiale che hanno presenteato nel corso dell'arringa tenuta il 29 giugno, e sottolianendo inoltre, secondo le loro ricostruzioni, le evidenti omissioni nello svolgimento delle indagini.

La conferenza come causa del 'dolo'
Durante l'udienza dedicata all'esposizione dell'accusa gli avvocati di parte civile hanno più volte ribadito che la causa del dolo per l'imputato Saverio Masi potrebbe essere stata la conferenza stampa tenuta il 14 maggio 2013. In quella occasione l’avv. Carta aveva denunciato pubblicamente, insieme ad un collega, gli ostacoli e le omissioni frapposte fra il 2001 ed il 2004 prima alla cattura di Bernardo Provenzano e successivamente a quella di Matteo Messina Denaro. Una conferenza stampa - decisamente non gradita ai vertici dell’Arma - basata sulle denunce dello stesso Masi e del suo collega Salvatore Fiducia.
A seguito della conferenza gli ufficiali accusati dai due militari avevano dunque sporto numerose querele tutte riunite dalla procura di Roma in un unico procedimento sfociato nel rinvio a giudizio, conclusosi, come ha ricordato l'avvocato La Barbera con l'assoluzione di Saverio Masi emessa "dal tribunale di Roma" per "non aver commesso il fatto".
Inoltre durante la sua arringa l'avvocato difensivo di Masi ha poi ribadito che l'attuale processo in corso non ha nessun collegamento con il processo 'trattativa stato mafia sottolineando che il suo assistito non ha mai rilasciato dichiarazioni ai giornalisti fuori dall'aula come invece ha sostenuto l'accusa.

Gli interventi del Ros nelle indagini per la cattura di Provenzano
Durante la sua arringa l'avvocato difensore di Masi ha parlato della questione dell'intervento del Ros nell'ambito delle indagini in corso al casolare di Ciminna  ritenute dall'allora sostituto procuratore della Dda Michele Prestipino come ssolutamente conducente alla cattura del latitante
Il legale del maresciallo ha ripercorso gli avvenimenti più significativi che sono scaturiti dalle indagini sul casolare, "quando arriva Sottili il maresciallo Masi racconta che ha provato a dirgli, 'ho trovato questo casolare e ritengo sia opportuno montare una telecamera'" anziché delle microspie perché i servizi segreti con una loro comunicazione avevano fatto sapere, come ha riferito lo stesso Masi nelle udienze precedenti, che Provenzano dopo la sua mancata cattura "faceva bonificare i posti in cui si recava" facendo sì che i suoi uomini prestassero particolare attenzione alle microspie. Ma nonostante le spiegazioni date da Masi la telecamera non è stata mai messa anche se, come specificato nelle precedenti deposizioni dal maresciallo, era già stata progettata e costruita.
L'altro punto caldo è alla questione dell'intervento del Ros nell'ambito delle operazioni. Va specificato che il reparto speciale dei carabinieri non era mai intervenuto prima di allora, come anche ha riportato il generale Stefano Fedele nell'udienza del 31 marzo 2021, "io interloquì sia con la Dda sia con il Ros. Perché inizialmente vista la bontà dell'indagine io chiesi la partecipazione del Ros il quale inizialmente non fu dello stesso avviso e ci disse che potevano continuare l'indagine da soli".
Nonostante la comunicazione dello stesso Reparto Operativo Speciale, secondo il legale La Barbera, i superiori di Masi si adoperarono per far credere al loro sottoposto che la collaborazione con il Ros era obbligatoria.
A riscontro di questo la difesa ha presentato una deposizione data dal colonnello Sottili al processo di Bari in cui ha detto "Masi aveva avuto notizia che un certo casolare potesse essere frequentato in qualche modo da Provenzano ed erano andati in procura prima del mio arrivo, lui e il suo comandante, e i magistrati addetti alla ricerca di Provenzano gli avevano detto: va bene sviluppate questa notizia ma con il Ros" perché era in quel momento il gruppo più specializzato per la cattura del latitante.


provenzano bernardo bn

Il superboss di Cosa nostra, Bernardo Provenzano


Cosa aveva comportato l'intervento presumibilmente forzato del Reparto Operativo Speciale secondo Masi?
Andiamo per ordine.
Il giorno dopo la cattura di Benedetto Spera - uno dei principali fiancheggiatori di Provenzano - era stata allacciata l’energia elettrica nel suddetto casolare e l'intestatario del contratto apparteneva alla stessa famiglia che aveva firmato il contratto per la luce nel covo di Benedetto Spera. Secondo gli investigatori, tra cui Masi, poteva trattarsi di un chiaro indizio di uno spostamento di Provenzano da un covo a un altro. “Mi fu imposto di coordinarmi col Ros - ha raccontato Masi - mi ero attrezzato per la preparazione tecnica. Volevo piazzare una telecamera, installare delle cimici all’interno era troppo pericoloso, rischiavamo certamente di essere visti. Il colonnello Sottili mi chiese quale ditta mi avrebbe fornito il materiale e mi ha detto di non lavorare mai con una ditta di Palermo, anche se, negli anni a seguire, abbiamo sempre lavorato con un’azienda cittadina”. Ma, ha continuato Masi, “la telecamera non viene montata” e "avviene un lungo empasse, tutto era in mano al capitano Valeri del Ros, poi, addirittura, ci passano sopra con un elicottero… (al casolare n.d.r) e io avevo passato le notti a scalare le montagne per fare qualche ripresa, evitavo di passare dal paese e quando iniziò il breafing per capire come intervenire, c’erano auto del Ros nei pressi del casolare”.
Secondo la difesa è in questa circostanza che Masi inizia a nutrire dei seri dubbi sulla metodologia adottata in merito alla cattura di Provenzano. Inoltre, ha raccontato Masi "abbiamo tentato di entrare nel casolare per piazzare le cimici ma non ci siamo riusciti né la prima, né la seconda volta. Mi sembravano scuse: una volta si era rotta l’apparecchiatura, un’altra volta non c’era la chiave adatta. L’ho esternato ai miei superiori e loro mi hanno detto: ‘è un caso’”. E poi ancora un giorno il maresciallo riceve la chiamata del capitano Valeri e riceve la notizia che i militari erano entrati nel casolare ma le cimici non erano state piazzate poiché non era stata trovata, secondo la versione fornita, la fonte di alimentazione adeguata.
Dopo questo episodio, come esposto dalla difesa, Sottili ha dato l'ordine di chiudere definitivamente le indagini sul casolare di Ciminna, "quindi andai da Sottili - ha aggiunto Masi - perché l’accordo era che dovevo esserci io o un uomo della mia squadra. C’è stato un alterco e subì l’ordine di chiudere l’indagine”.
Nonostante il casolare dopo quell'azione non era più di alcuna utilità come pista investigativa, secondo la versione fornita da Masi e dalla sua difesa c’erano ancora importanti elementi di indagine da verificare, ossia le intercettazioni di Angelo Tolentino e Antonino Episcopo - fiancheggiatori stretti di Provenzano e capi della famiglia mafiosa di Ciminna - i quali però, ha raccontato la difesa, non verranno minimamente attenzionati dagli investigatori. Infatti sono stati poi in seguito gli uomini della Polizia di Stato ad arrestarli nell'ambito dell'operazione 'Grande Mandamento' il 25 gennaio del 2005 - la quale ha avuto un forte impulso dalle dichiarazioni del neo pentito Antonino Giuffrè - facendo così aumentare i dubbi che Masi aveva nei confronti del nucleo operativo dei carabinieri di Palermo.

Il mancato controllo sulla macchina da scrivere
Il legale La Barbera ha poi esposto l'episodio avvenuto nel parco di autodemolizioni di Ficano Massimiliano - fedelissimo di Provenzano, arrestato nel 2009 e cognato di Salvatore Castello, il postino della primula rossa di Corleone - in cui è stata scoperta in un casotto una macchina da scrivere che Masi ha ipotizzato poteva essere stata usata da Provenzano per compilare “pizzini”. Alla richiesta di fare verifiche sulla stessa, di battere un semplice alfabeto su un foglio per poi fare il confronto con quelli scritti e recuperati in precedenti operazioni, Michele Miulli, che nel casotto avrebbe deciso anche di non piazzare microspie, non lo ha permesso. Ne sorge quindi una discussione in cui Masi, sempre secondo quanto riportato in aula, ha appreso che anche nelle indagini su Gaetano Lipari, ritenuto come “l'infermiere di Provenzano”, erano stati compiuti dei rallentamenti con il mancato pedinamento dei principali indagati.
Infatti nella denuncia presentata dal maresciallo si legge che "per settimane intere le indagini su Ficano non hanno avuto alcun esito poiché al momento dei necessari pedinamenti è stato dato l'ordine all'esponente dall'allora capitano Miulli di interrompere l'attività. L'indagine ha avuto un decollo improvviso solo quando la procura di Palermo gli ha affiancato la Polizia di Stato" e, ha scritto Masi "da quel momento nel giro di pochissime ore si iniziò una corretta, completa e consona attività investigativa. Microfonando la sede dell'attività lavorativa del Ficano".
Il legale di Masi ha infatti osservato che il capitano Miulli non aveva al tempo eseguito i controlli sulla macchina da scrivere nonostante quel giorno era presente assieme ai suoi sottoposti in un luogo notoriamente di proprietà di un fedelissimo di Provenzano. In riferimento a tale episodio, nell'udienza del 17 dicembre del 2020 Miulli ha risposto che non aveva eseguito il controllo sulla macchina da scrivere perché "che ne so poteva rompersi un tasto".
Inoltre la difesa ha anche esposto la questione sollevata da Masi nella sua denuncia in relazione al fatto che gli veniva periodicamente impedito di eseguire dei pedinamenti anche nei riguardi di Ficano Massimiliano e la prova di questo secondo la difesa sta in una dichiarazione fatta dallo stesso Sottili al processo di Bari, il quale alla domanda se a Masi gli erano stati impediti di eseguire pedinamenti il colonnello ha risposto: "È avvenuto certamente almeno in due casi. Nell'indagine di Ficano e nell'indagine Mesi".

La perquisizione a casa di Giovanni Giuseppe Tomasino
Durante la sua arringa il difensore di Masi ha parlato dell'ipotesi che Sottili avrebbe favorito la latitanza di Bernardo Provenzano impedendo a Masi di eseguire delle perquisizioni a casa del consigliere comunale Giovanni Giuseppe Tomasino in coincidenza di una ordinanza di custodia cautelare a carico di quest’ultimo.
Ed è proprio su questo punto che il maresciallo Masi ha fatto la sua denuncia, scrivendo che aveva avuto notizia da una fonte confidenziale che gli aveva raccomandato di sequestrare il pc se ne avesse avuto la possibilità perché all'interno vi erano dei file riguardanti Salvatore Cuffaro.
Tuttavia il capitano Nicoletti non sequestra il pc, secondo quanto riportato da Masi e da quell'episodio sarebbe nato poi un alterco tra i due riportato in seguito da un testimone.
La difesa ha ribadito che nel corso delle varie vicissitudini i dubbi del maresciallo in merito alla genuinità dei suoi superiori stava venendo sempre meno.


denaro messina denaro edit pp

Il boss di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro


L'incontro con Matteo Messina Denaro
Il maresciallo Masi nella sua denuncia ha scritto che Miulli Michele e Sottili Giammarco gli hanno ordinato di omissare alcuni punti - ritenuti dal maresciallo di una certa rilevanza - dalla relazione di servizio che lo stesso aveva redatto in merito all'incontro casuale con il latitante Messina Denaro nel marzo del 2004. L'episodio è stato raccontato da Masi lo scorso 28 aprile, "dopo aver fatto il giro di uno spartitraffico", ha spiegato il maresciallo, "mi trovo una macchina ferma davanti e una donna che teneva aperto il cancello della villa davanti a casa mia", siccome la strada era in pendenza "non capii perché la macchina si fosse fermata lì" e allora, dopo qualche secondo "la sorpasso, mi giro e riconosco il latitante Matteo Messina Denaro. Stiamo parlando del 2004 e io abitavo a Bagheria".
Dal momento che Masi, secondo le sue dichiarazioni non era armato, non ha fatto ulteriori azioni ed è tornato immediatamente alla sua abitazione.
Secondo la difesa sarebbe stato proprio questo il motivo principale del suo mancato intervento.
"La mattina dopo - ha proseguito Masi - alle otto e venti mi sono recato all'anagrafe per capire chi abitasse a quel numero civico e ho identificato i proprietari". Nel frattempo il maresciallo aveva anche chiamato i colleghi della sezione scientifica "per far mettere una videocamera sotto un vaso di fiori, fuori dal mio balcone, al fine di visualizzare chi entrava e chi usciva dalla villetta. Ma tali telecamere ci permettevano solo di identificare le targhe delle auto ma non ci permettevano di vedere chi guidava".
Il militare ha anche spiegato di aver effettuato, nei giorni seguenti, anche delle richieste scritte ai suoi ufficiali superiori, affinché la videocamera venisse sostituita con una più idonea. "Io - ha ripetuto in aula - mi ero già lamentato anche a voce con Miulli e Sottili" ma tale problematica "non venne mai risolta, non siamo mai riusciti ad identificare le persone che entravano e uscivano da quell'abitazione".
La difesa riguardo a questo ultimo punto ha voluto ribadire che non sono stato fatto nessuno dei provvedimenti richiesti dal maresciallo.
Come ad esempio anche le tempestive azioni investigative nei riguardi della donna, identificata in un secondo tempo, che avrebbe tenuto aperto il cancello della villa. "Ci fu un'intercettazione tra la donna e il marito - ha raccontato ancora Masi - dove si capiva che si stava recando da Bagheria a Palermo, telefonata strana perché non chiariva il motivo del suo spostamento, quindi decisi di pedinarla". La donna, sempre intercettata, dopo essere uscita dal portone di una villa in Via Oreto con la macchina "riceve una telefonata da parte del marito il quale era desideroso di sapere com'era andato quell'incontro. La Rosalinda adirata ha detto: 'ma che stai facendo chiudi subito questo telefono!'".
Le circostanze sospette hanno spinto il Masi a chiedere ai suoi superiori che venissero predisposti dei controlli al fine di individuare il personaggio che la donna aveva ipoteticamente incontrato nella villa, ma "come sempre non venne fatto niente" ha detto il maresciallo. Ed è emerso che vi sarebbe anche una videocassetta contenuta in un fascicolo fra gli archivi della procura con il nominativo intestato alla donna e in cui la stessa è ripresa assieme alla sorella di Matteo Messina Denaro.

Il metodo Sottili
L'avvocato di Salvatore Fiducia nella sua arringa ha criticato il cosiddetto 'metodo Sottili' come la causa che vietava in modo totale la circolazione delle informazioni all'interno della procura dicendo che "è vero che l'appuntato che sta alla porta non deve sapere ma quelli che indagano si" sottolineando anche le difficoltà che questa metodologia ha provocato all'interno del reparto. Inoltre, sempre rimanendo nell'ambito del 'metodo Sottili, l'avvocato di Fiducia ha smentito le dichiarazioni dell'accusa secondo la quale la metodologia adottata dal colonnello sarebbe da attribuire alle circostanze scaturite dal procedimento 'talpe in procura' poiché la menzionata indagine prende le "prime mosse nel dicembre del 2002" mentre Sottili aveva preso il comando solo a partire dal 26 luglio 2001.
Inoltre l'accusa aveva lamentato che i loro assistiti avevano subito dei pesanti danni alla loro immagine e alle proprie carriere, tuttavia la difesa ha precisato che alcuni dei soggetti coinvolti nell'odierno procedimento sono arrivati addirittura a occupare posti estremamente alti nella scala gerarchica. Dopo aver ripercorso le diverse circostanze che hanno riguardato in maniera più specifica Salvatore Fiducia il legale ha infine richiesto "sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato".
La  sentenza è prevista per il 14 luglio 2021, ore 9.30

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