Corte d'Assise: "Taranto è stata avvelenata dalle emissioni nocive prodotte dallo stabilimento Ilva gestito tra il 1995 e il 2012 dalla famiglia Riva"
Il Tribunale ha giudicato colpevoli a vario titolo i principali imputati del processo Ambiente Svenduto condannando a pene severe ex proprietari, vertici dell’acciaieria, politici e uomini delle istituzioni coinvolti.
La Corte d’Assise, presieduta da Stefania D’Errico e giudice a latere Fulvia Misserini, ha in sostanza giudicato valida l'accusa dei pm Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile, Remo Epifani e Raffaele Graziano, coordinati dal procuratore Maurizio Carbone, i quali avevano portato davanti alla corte a vario titolo i reati di associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale, omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro, avvelenamento di sostanze alimentari, corruzioni in atti giudiziari, omicidio colposo e altre imputazioni.
Il dispositivo di sentenza è stato letto dopo 11 giorni di camera di consiglio. In un'1 ora e 46 minuti a partire dalle 10.43, la Corte ha reso note le condanne: 22 anni di reclusione a Fabio Riva e 20 al fratello Nicola Riva, a Girolamo Archinà - responsabile delle relazioni istituzionali e definito dall’accusa come la “longa manus” dei Riva verso istituzioni e politica - 21 anni e 6 mesi, a Gianni Florido ex presidente della Provincia di Taranto 3 anni per aver fatto pressione sui dirigenti della sua amministrazione affinché concedessero l’autorizzazione all’Ilva per l’utilizzo della discarica interna alla fabbrica, stessa pena per l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva, 21 anni per Luigi Capogrosso ex direttore dello stabilimento, due anni per Giorgio Assennato ex direttore di Arpa Puglia per favoreggiamento, invece per l'ex governatore Nichi Vendola - accusato di concussione aggravata in concorso - 3 anni e sei mesi, mentre ai principali fiduciari dell'acciaieria, Lanfranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli e Agostino Pastorino (una specie di "governo ombra" dei Riva) sono stati inflitti 18 anni e 6 mesi di pena.
Inflitta invece una condanna di 15 anni e 6 mesi per l'ex consulente della procura Lorenzo Liberti. E poi ancora, 17 anni per Ivan Di Maggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò.
In foto da sinistra: Nicola e Fabio Riva
Le altre pronunce della Corte
Assolti l'ex prefetto di Milano Bruno Ferrante, l’ex sindaco di Taranto Ippazio e Stefano due fiduciari, Giuseppe Casartelli e Cesare Corti.
Prescrizione per l’ex assessore pugliese e deputato di Si Nicola Fratoianni e per l’attuale assessore regionale Donato Pentassuglia.
4 anni, invece di 17 come richiesto dall'accusa per l'allora direttore del siderurgico Adolfo Buffo, ora direttore generale di Acciaierie Italia.
Per Marco Andelmi e Angelo Cavallo la pena è stata di 11 anni e 6 mesi anziché dei 17 richiesti dall'accusa.
L’avvocato dei Riva Francesco Perli è stato condannato a 5 anni e 6 mesi (l’accusa ne aveva chiesti 7). A molti dei condannati la Corte ha inflitto anche l’interdizione perpetua o per 5 anni dai pubblici uffici o dai propri incarichi.
Tutte le difese hanno già annunciato ricorso in appello, con gli avvocati dei Riva pronti a sostenere che la famiglia ha “costantemente investito ingenti capitali” in Ilva “al fine di migliorare gli impianti e produrre nel rispetto delle norme” per un totale sotto la loro gestione di “4,5 miliardi di euro, di cui 1,2 miliardi di natura specificatamente ambientale”.
All'Ilva è stata inflitta una pena pecuniaria di 4 milioni euro e l’area a caldo dello stabilimento è stata confiscata. Gli effetti della confisca - calcolati per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società Ilva spa, Riva fire spa, oggi Partecipazioni industriali spa in liquidazione, e Riva forni elettrici per gli illeciti amministrativi per una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro - non saranno immediati sulla produzione dello stabilimento poiché diverrà operativa solo quando la condanna sarà confermata dalla Cassazione.
Per ora resta attivo il sequestro con facoltà d’uso da parte di Acciaierie Italia, la join venture tra ArcelorMittal e Invitalia che gestiscono l'impianto.
Infatti come già confermato dalla Corte Costituzionale l’acciaieria di Taranto è considerata per legge un impianto strategico per l’economia dal 2012.
Inoltre è stata disposta anche la trasmissione degli atti alla procura per l’ipotesi di falsa testimonianza di 4 persone ascoltate in aula, compreso l’ex arcivescovo della diocesi di Taranto Benigno Papa.
Gli inizi della vicenda
Tutto era iniziato il 26 luglio 2012 quando venne notificato il decreto di sequestro degli impianti firmato dalla gip Patrizia Todisco (gli operai avevano già isolato la città perché il provvedimento era sostanzialmente “annunciato”). Per settimane i carabinieri del Nucleo operativo ecologico di Lecce avevano filmato i fumi dell'impianto siderurgico più grande d’Europa.
Gli imputati erano stati rinviati a giudizio nel 2015, ma il dibattimento iniziato davanti alla Corte d’Assise era stato annullato qualche mese più tardi e si era tornati in udienza preliminare. Il secondo processo, cominciato nel 2016, si è concluso solo ieri e ha visto 47 imputati alla sbarra (44 persone fisiche e 3 società).
Per la procura di Taranto, la sentenza “rappresenta un momento importante per la città di Taranto” che chiude “la prima fase di una delicata e complessa vicenda giudiziaria”, ha scritto il procuratore Carbone, aggiungendo che “è stato un percorso giudiziario lungo e travagliato, una strada in salita e con tanti ostacoli, ma oggi possiamo esprimere la nostra soddisfazione per questo primo importante risultato. Leggeremo con attenzione le motivazioni di questa sentenza che rappresenta una svolta storica sul piano giudiziario per la città di Taranto, e non solo”.
Anche il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci ha voluto esprimere il suo parere dicendo che “credo che da oggi cambia tutto per questo Paese, cambia tutto per Taranto, per i diritti dei tarantini. Tutte le sofferenze che ci portiamo dietro finalmente vengono riconosciute dallo Stato italiano”.
Mentre Nichi Vendola ha definito la sentenza come "una vergogna, una carneficina del diritto e della verità. Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata. Sappiano i giudici che hanno commesso un grave delitto contro la verità e contro la storia”, ha scritto definendosi un “agnello sacrificale” e annunciando che “non starò più zitto”.
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