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Questa mattina, nell’ambito del processo sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980, è stato ascoltato Giancarlo Di Nunzio, una deposizione durata per più di tre ore caratterizzata da numerose contraddizioni, omissioni e diversi "non ricordo", tanto che è dovuto intervenire il presidente della Corte d'Assise, Francesco Caruso, che lo ammonito dicendo: "Lei si è impegnato a dire tutta la verità, se nega quanto ha dichiarato in precedenza la sua deposizione diventa del tutto inattendibile".
Uno dei punti su cui si sono concentrate le domande dei pm riguardava una transazione finanziaria avvenuta il 3 settembre del 1980 di 240mila dollari.
I soldi sarebbero stati accreditati da Marco Ceruti, imprenditore e 'cassiere' di Licio Gelli, su un conto della Tdb di Genova, i cui intestatari erano proprio Giancarlo Di Nunzio e Giorgio Di Nunzio (morto nel 1981) il cambiavalute e mediatore d'affari che secondo la Procura generale è stato il primo beneficiario dei soldi destinati a finanziare la Strage.
Sui motivi del perché avesse aperto il conto cointestato con lo zio (Giorgio n.d.r) e sul perché avesse ricevuto dallo zio la delega per un altro conto svizzero, Giancarlo si è limitato a dire che Giorgio "doveva operarsi al cuore in Svizzera" e quindi lui avrebbe dovuto gestire il denaro per l'operazione, la degenza e altre spese. Una risposta che non ha convinto i Pg.
Inoltre il teste ha ribadito che non era al corrente del fatto che lo zio conoscesse Federico Umberto D'Amato (indagato nel fascicolo che ha portato a questo processo insieme a Licio Gelli, Umberto Ortolani e Mario Tedeschi, tutti deceduti e quindi non imputabili), a differenza di quanto detto da suo cugino Roberto in un'altra udienza.
Ha ammesso invece davanti alla corte il fatto che lo zio conoscesse il faccendiere Francesco Pazienza, che lui stesso avrebbe incontrato due volte, nel 1981, pur mostrandosi confuso e contradditorio sulla data precisa.
Oltretutto lo stesso Pazienza ha chiesto, tramite il suo legale di essere ascoltato come teste, come già fece durante il processo a Gilberto Cavallini. La Corte deciderà nei prossimi giorni se accogliere o meno la richiesta.
Continuando nella deposizione Giancarlo Di Nunzio ha negato di aver consegnato al cugino Roberto 190 milioni di lire, in due tranche, a distanza di 10 anni, dopo la morte dello zio. Ma anche qui è venuta fuori l'ennesima contraddizione, poiché tre anni fa, sentito dai Pg, disse solamente di non ricordarsi se i soldi consegnati al cugino erano in contanti o tramite assegno.
I magistrati hanno contestato al teste due punti: il fatto di non aver riconosciuto, quando fu sentito nel maggio 2018, durante le indagini, la sua firma sul conto corrente, che invece oggi Di Nunzio ha dichiarato di riconoscere e il fatto che ha detto di non aver mai conosciuto Marco Ceruti.
Giancarlo verso la metà degli anni '80 si era iscritto ad una loggia massonica e per i pg è difficile credere non sapesse nulla della persona che versò i 240mila dollari sul conto corrente di cui era cointestatario con lo zio.
Infine sempre in contrasto con quanto dichiarato dal cugino, ha negato che nel suo ufficio di via Bruxelles a Roma, utilizzato anche da Giorgio Di Nunzio, ci fosse un archivio con documenti importanti. Archivio che stando invece alle dichiarazioni di Roberto Di Nunzio era sulla bocca di molti dei presenti alla camera ardente dello zio e che "sarebbe dovuto sparire". Durane la mattinata è stata sentita anche Melania De Nichilo Rizzoli, vedova di Angelo Rizzoli e attuale assessore regionale al Lavoro della Lombardia. La sua testimonianza ha riguardato la scalata al Corriere della Sera di fine anni '70, il ruolo del Banco Ambrosiano nella vicenda, i rapporti fra il marito e Francesco Cossiga, quelli con Roberto Calvi, e anche dell'incontro tra Rizzoli, Francesco Pazienza e Federico Umberto D'Amato.
Un altro teste chiamato della corte è stato il capitano della Guardia di finanza Cataldo Sgarangella, il quale ha riferito della situazione patrimoniale di Giancarlo Di Nunzio in particolare negli anni tra il 1982 e il 1984, quando avrebbe fatto rientrare in Italia dall'estero circa 482.700 dollari. Il capitano
ha analizzato anche le risorse economiche a disposizione di Federico Umberto D'Amato, ex capo dell'Ufficio affari riservati del ministero dell'Interno, il cui tenore di vita tra la fine degli anni '70 e gli anni '80 e' ritenuto dagli investigatori incompatibile con il suo stipendio.

Prossima udienza
Domani, sarà sentito l'ex Nar Gilberto Cavallini, condannato in primo grado all'ergastolo, nel gennaio 2020, per concorso nella Strage di Bologna.
Cavallini - accusato in concorso dello stesso reato per il quale viene processato oggi l'ex Avanguardia Nazionale Paolo Bellini - aveva fatto sapere nelle scorse settimane tramite il suo legale, l'avvocato Gabriele Bordoni, che avrebbe preferito non essere convocato. Motivo? Si avvarrà della facoltà di non rispondere.
Ma il presidente della Corte d'Assise, Francesco Caruso, ha spiegato di non poter autorizzare un teste a non presentarsi in aula, quindi l'ex Nar dovrà comunque comparire davanti ai giudici, per poi scegliere di non rispondere alle domande.
Oltre a Cavallini, nella prossima udienza saranno sentiti altri tre testimoni: il giornalista Gian Antonio Stella, il critico gastronomico Edoardo Raspelli, che dovrà riferire dei suoi rapporti con Federico Umberto D'Amato in particolare riguardo al periodo in cui entrambi collaboravano con L'Espresso, e infine l'antiquario Agostino Vallorani, che dovrà spiegare davanti ai pm i suoi rapporti con Bellini e le protezioni di cui godette quest'ultimo. La Corte d'Assise ha inoltre autorizzato la proiezione, sempre nella prossima udienza di venerdì 21 maggio, di un'intervista a Licio Gelli - ritenuto dagli inquirenti uno dei mandanti, organizzatori e finanziatori della Strage assieme a D'Amato, Umberto Ortolani e Mario Tedeschi - rilasciata alla trasmissione televisiva 'Bersaglio Mobile'. La difesa di Bellini si era opposta a far sentire l'intervista, ma la Corte ha deciso diversamente.

Immagine di copertina © Il Fatto/Flickr

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