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Retroscena familiari, affari sulle colonnine di carburante e una potenziale trattativa con lo Stato nelle parole del giovane collaboratore di giustizia

Continuano ad essere acquisite decine di pagine di verbali al dibattimento Rinascita-Scott. Le ultime sono quelle del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso aventi ad oggetto, tra l’altro, alcuni aspetti dell’inchiesta “Petrolmafie Spa” come, ad esempio, gli affari del clan nel settore dei carburanti e le colonnine di benzina sparse sul territorio vibonese. Inoltre, all’interno dei recenti verbali che Emanuele Mancuso ha rilasciato alla Dda, viene delineato anche il profilo di Francesco Tabacco Mancuso e di Antonio Pronesti, detto “Totò Yo-Yo”: braccio armato del boss Luigi Mancuso. Stando alle dichiarazioni di Emanuele Mancuso, nel business dei distributori di carburante la maggior parte dei componenti della sua famiglia “investiva in colonnine di benzina attraverso prestanome”. “Posso dire che i soggetti che ho nominato non avrebbero potuto assumere autonomamente questo tipo di iniziative senza il benestare dei maggiorenti di riferimento – ha continuato il collaboratore -. In particolare, Leo Rizzo non avrebbe potuto farlo senza l’assenso di mio zio Antonio Mancuso o di Michele Mancuso così come Antonino Gallone non avrebbe potuto aprire una colonnina con il Solano senza l’autorizzazione di mio padre essendo un suo faccendiere”. Nomi e cognomi quelli fatti dall’ex rampollo del casato mafioso di Limbadi, provincia di Vibo Valantia, non in grado, però, di riferire la presenza di una regia comune all’interno del clan nella gestione del settore in questione.

Francesco Mancuso: uno ‘ndranghetista che conta in una famiglia che lo odia
Parlando dello zio “Tabacco”, Emanuele Mancuso ha riferito essere uno “che conta nella famiglia anche se non so che dote abbia nella ‘Ndrangheta”. “Ho avuto sempre un atteggiamento disincantato verso queste questioni rituali, ma so per certo che fa parte del clan, con un molo di peso – ha spiegato - anche se in disaccordo con molti dei maggiorenti ed ha sicuramente dei limiti e si deve fare spazio in mezzo agli altri”. Successivamente il collaboratore di giustizia, continuando a parlare dello zio Francesco Mancuso, ha fatto riferimento anche ad una vecchia sparatoria in cui fu ucciso Lele Fiamingo i cui retroscena vennero evidenziati dall'inchiesta “Errore Fatale”: un’indagine che portò in carcere il boss di Limbadi Cosmo Michele Mancuso (all'epoca già detenuto per “Costa pulita”), il boss di Zungri Giuseppe Accorinti, Antonio Prenesti di Nicotera e Domenico Polito di Tropea. “Quel giorno che gli hanno sparato (a “Tabacco” Mancuso, ndr) addirittura tornò a casa per non far apparire che fosse in difficoltà all’interno del clan, nonostante avesse perso molto sangue. Fu il figlio a portarlo in ospedale”. Lo zio di Emanuele Mancuso, sempre per quanto riferisce lo stesso pentito, voleva “imitare l’altro zio, Luigi, e per certi versi riunire la famiglia, soprattutto dopo la sua scarcerazione, anche se aveva tutti gli zii contro”. Infatti, lo stesso Luigi Mancuso “lo odia”, Michele Cosmo Mancuso “voleva ucciderlo” (non ci riuscì) e lo zio Antonio “lo detestava anche in ragione di screzi con i Cicerone, ai quali aveva fatto saltare in aria la macchina, come si evince anche dalle carte del processo Dinasty, per prendere le difese mie e di mio fratello nei confronti dei Cicerone” - ha continuato - Ciò nonostante, lui voleva tenere unita la sua famiglia, perlomeno i propri fratelli”. Si tratta dunque di “un membro importante del clan Mancuso, anche perché le divisioni tra i vari rami rimanevano interne alla famiglia; dopo 15 anni di carcere, ha cercato di trovare i propri spazi e dal carcere è uscito più ‘ndranghetista di quanto già non lo fosse”.

Un affare da imprenditori
Le dichiarazioni di Emanuele Mancuso vertono poi su una vicenda in cui ad essere coinvolto era un imprenditore, attivo nel settore delle costruzioni, la cui impresa si trovava vicino l’autostrada. Trattasi di una vicenda che il pentito sostiene di aver appreso dai diretti interessati. “Questa circostanza è avvenuta dopo la scarcerazione di Francesco Mancuso – ha detto il giovane collaboratore di giustizia -. Sul punto, io so che lo zio Luigi e Peppone Accorinti dovevano spartirsi a metà una somma di 50mila euro, proveniente a titolo estorsivo da questo imprenditore”. “Ma Francesco si contrappose perché non voleva assolutamente che ciò avvenisse dal momento che l’imprenditore in questione non doveva essere toccato in alcuno modo – ha continuato il pentito -, in quanto a suo dire ‘stava con loro da più di 20 anni’; per cui, se ci fossero stati soldi da prendere, questi sarebbero spettati soltanto a lui”. Emanuele Mancuso venne coinvolto nella vicenda in quanto la sua famiglia “aveva l’interesse diretto nell’affare, perché parte dei 25mila euro dello zio Lugi dovevano essere versati anche a mio padre”. Il pentito si è anche detto certo di aver parlato della vicenda con lo zio Francesco e poi col figlio Domenico, detto “Tequila”, alla presenza di una terza persona: “In questa occasione il figlio di ‘Tabacco’ ribadì lo stesso concetto, risultando persino più risoluto o sgradevole nei toni. Mio zio ed il figlio parlavano con me di questa questione perché io portavo le ambasciate all’altro ramo della famiglia interessato alla questione dei 50mila euro, anche se non ricordo esattamente a chi io riportassi i messaggi dei due”. Una vicenda il cui esito finale è sconosciuto al giovane collaboratore. Certo è, però, che “Francesco Mancuso era un personaggio che poteva autorevolmente dire la sua in situazione del genere, rivendicando quanto gli spettava in ragione della sua posizione nel clan anche nei confronti di zio Luigi”. Lo zio Francesco, dunque, era comunque “un esponente importante del clan, riconosciuto come tale all’esterno, che rivendicava la sua fetta di potere ed il suo spazio, anche al di là del valore economico che poteva avere la singola estorsione”. “Cercava i suoi spazi – ha continuato il pentito – e in questo suo tentativo di riunificare le varie anime del clan aveva cercato di accreditarsi nella famiglia per aumentare il proprio prestigio; ricordo che provava a guadagnarsi anche la mia fiducia. Voleva che io lo seguissi”.

Un presunto accordo tra Stato e “Scarpuni” Mancuso
Dal verbale emerge anche un altro retroscena della famiglia mafiosa. Stando alle dichiarazioni del giovane collaboratore di giustizia, Luigi Mancuso avrebbe intimato il nipote Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, ad allontanarsi prima di essere arrestato “perché sapeva di chiaramente che gli avrebbero dato l’ergastolo”. Lo stesso soggetto che si trova dietro le quinte della faida che insanguinò il vibonese tra il 2011 e il 2012. “Scarpuni” da una parte sosteneva i Patania di Stefanaconi, dall’altra era ricercato dal gruppo di fuoco dei Piscopisani i quali volevano ucciderlo e decapitarlo. Tutto ciò però non avvenne perché ad anticipare le mosse ci pensò la Dda e Pantaleone Mancuso si trova tutt’oggi recluso all’ergastolo e condannato al 41bis. “Chiesi a Luigi perché non aggiustavano la sentenza che lo riguardava – ha rivelato Emanuele Mancusoma Luigi mi diceva che non era possibile perché lo stato di cose derivava da una precisa scelta di ‘Scarpuni’. Quest’ultimo, a detta di mio zio Luigi, aveva trovato un accordo, presumo con lo Stato, in base al quale se lui si fosse fatto arrestare avrebbe evitato che gli venisse tolto il figlio, in considerazione anche della vicenda della Buccafusca”. La signora Tita Buccafusca è la defunta moglie di Pantaleone Mancuso, la quale era ormai giunta a un passo dalla collaborazione con la giustizia riempendo (ma non firmando mai) il verbale in cui dichiarava di voler entrare nel programma di protezione testimoni. Morì all’ospedale di Reggio Calabria per aver ingerito acido muriatico.

La famiglia Mancuso e la colonnina di carburante
Infine, Emanuele Mancuso parla anche dello zio Giovanni Mancuso definendolo come colui che venne “designato per continuare l’attività della colonnina Ies. L’attività imprenditoriale era stata interrotta per dei diverbi nati con i fornitori siciliani. Il tentativo di risolvere la questione veniva intrapreso da Giovanni per il tramite del figlio Giuseppe e Beppe Rizzo. Questi si recarono in Sicilia per parlare con i siciliani ma dopo l’attesa di 8 ore l’incontro non si concretizzò”. Tutti fatti noti al collaboratore di giustizia perché appresi direttamente dal cugino Giuseppe. “So degli interessi di Giovanni Mancuso in questa colonnina per questo motivo ed anche per un altro episodio, ricollegabile al furto degli hard disk dell’impianto di videosorveglianza della stessa pompa di benzina – ha detto -. In famiglia si attribuiva la responsabilità di questo furto a Giuseppe Navarra e Francesco Olivieri (famoso per la mattanza di Nicotera, ndr), tant’è che chiesero conto a me che in quel periodo avevo pure ‘la mano lunga’ ed avevo affari con il primo, ma feci capire loro che non era la pista giusta e che forse erano state le stesse forze dell’ordine a prelevare quei supporti”. Dalle dichiarazioni di Emanuele Mancuso si evince, dunque, che la “Ies era della famiglia ed era un punto di incontro e di riferimento delle cosche. La questione venne portata all’attenzione di mio zio Luigi che non si capacitava di quanto successo. Lui stesso disse che ‘la colonnina non si tocca perché è di Giovanni Mancuso”. La persona che all’epoca si occupava delle questioni relative alla colonnina, inoltre, “ha avuto un grosso diverbio con Olivieri. Situazione che venne poi appacificata con l’ausilio di tutti per evitare ulteriori problemi dal momento che c’era anche Diego Mancuso presente, da poco scarcerato”.

In foto: un'udienza del Rinascita-Scott

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