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“Qui sistemi di potere, mercati protetti, e i catanesi confinati nei quartieri ghetto”

"Un coacervo di interessi illeciti" tra mondo imprenditoriale, politico e criminale hanno gravitato attorno alla città di Catania, una delle più grandi città d'Italia e del Mezzogiorno, a lungo considerata la «Milano del Sud», dando vita ad un "sistema economico di potere caratterizzato da mercati protetti da mafia e politica". Il consigliere togato del Csm, Sebastiano Ardita, intervenuto sabato scorso alla presentazione del libro "Una città in pugno", scritto da Antonio Fisichella, nel suo intervento ha ripercorso l'evoluzione del "sistema Catania" che ancora oggi, nonostante il tempo trascorso, è presente.
"C'è una fase rimasta un po' in ombra della gestione dell'affare Catania che segna la nascita del grande coacervo di interessi illeciti che gravitano attorno la città - ha ricordato -. Una fase nella quale c’erano molti morti ammazzati per le strade e si formava una Cosa nostra che si affacciava con i suoi interessi addirittura fino a Palermo. Giuseppe Calderone riforma la commissione regionale dopo la crisi che aveva attraversato Cosa nostra, con la strage di viale Lazio a Palermo. E da un catanese riparte l'iniziativa per la formazione della nuova Cupola. Così Catania, già prima di Santapaola, Riina e del cartello stragista, diventa un centro di potere mafioso importantissimo.
C'erano guerre di mafia, si sparava nelle strade, ma nonostante questo esistevano una cultura ed una informazione negazioniste, che avevano bisogno di un altro pilastro essenziale. E quel pilastro ulteriore attraverso il quale avviene la negazione della mafia a Catania, purtroppo, era la giustizia".
Una giustizia che "come sistema di repressione faceva acqua da tutti i lati e manteneva un rapporto di forte aderenza con la realtà mafiosa". Tra gli esempi ricordati il blitz che nel dicembre 1984 portò all'arresto di tre magistrati, del comandante dei Carabinieri, del direttore del carcere, del comandante degli agenti di custodia. "Erano personaggi in vista nella città che erano stati attinti da dichiarazioni di un killer arrestato a Torino, poi divenuto collaboratore di giustizia. Un'inchiesta - ha proseguito Ardita - che non fu presa bene. Ci fu anche un'assemblea di magistrati in cui qualcuno arringava i presenti contro i colleghi di Torino invitandoli a denunciarli".
Secondo Ardita "il Palazzo di giustizia è stato un punto centrale dal quale si è snodato un intreccio di potere enorme. Alle inaugurazioni dell’anno giudiziario si affacciavano procuratori generali che affermavano che non c'è la mafia'. Tanto da dar luogo ad una tardiva inchiesta del Csm". Solo così si venne a scoprire che venivano date forti "coperture ai cavalieri del lavoro e che vi erano magistrati che organizzavano convegni con i contributi di imprenditori collusi con la mafia".

L'esempio di Giambattista Scidà
In questo senso l'impegno di personaggi come Giambattista Scidà va ritenuto come un faro luminoso in mezzo all’oscurità, una delle personalità più limpide che questa città abbia mai avuto. "Scidà parte dalla condizione minorile a Catania, dalla vicenda dei quartieri a rischio e dei nuovi poveri di Catania, e denuncia l’intreccio tra poteri e la poca trasparenza del palazzo di giustizia. Racconta di una città in cui sgomita una borghesia affarista che si muove nell'ottica del profitto e che vuole raggiungere gli obiettivi economici più importanti. Ma ancora oggi la lezione di Scidà è importante e ci induce ad essere vigili su tutti i poteri pubblici della città. Perché la storia ci parla di poche persone che ne hanno occupato i gangli più importanti: giustizia, impresa, informazione e università".

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La fontana dell'Elefante al centro della Piazza del Duomo di Catania


Proprio di recente la Procura di Catania ha condotto un'inchiesta in cui è stato disvelato il sistema che ruotava dietro i concorsi universitari. "Il cuore della cultura catanese, che dovrebbe essere il luogo dove si dà spazio all'intelligenza e all'eccellenza, leggendo quegli atti, si vede piegarsi agli interessi di un gruppo che pilotava concorsi - ha ricordato il magistrato - e gestiva interessi privati. La cultura è la base da cui parte la coscienza critica di una città, il suo modello di sviluppo, il modo di pensare il futuro. Come è importante che la città abbia degli anticorpi. E Titta Scidà non era solo. Anche se non eravamo moltissimi c'erano tante energie attorno lui. A discutere con lui ho visto colleghi valorosi come Felice Lima e Nico Marino; giornalisti come Giuseppe Giustolisi e Marco Benanti, professionisti come Mario Strano e come Fabio Repici, certamente una delle persone a lui più vicine specie nell’ultimo periodo. Tutte persone che hanno concepito la propria funzione in un modo incisivo e non arrendevole rispetto ai fenomeni di illegalità della nostra terra”.

I sistemi economici di potere
"Uno dei mali della città è il problema dei cosiddetti sistemi economici di potere garantiti da mercati protetti. C'è una gestione assistita dell'impresa e delle iniziative. - ha proseguito Ardita nell'intervento - La politica e la mafia hanno seguito il percorso di favorire certe imprese. Così si viene a Catania solo se hai la copertura di Cosa nostra ed investi solo se hai alle spalle la politica. E' questa la storia dei 'Cavalieri del lavoro', come dimostra il buco fatto ai danni degli istituti di credito siciliani, gestiti dalla classe dirigente dell'epoca, in Sicilia. Ma è una storia che si ripete e che ha prodotto delle conseguenze incredibili perché è stata la vera causa dell’isolamento economico e della mancanza di vocazione all'attività d’impresa al sud. E' vero che c'è una mancanza di volontà politica di investire al Sud, ma un modello di sviluppo basato sulla protezione di mafia e politica delle imprese che investono, è un modello malato".
In realtà, secondo l'analisi del magistrato, la narrazione resta la medesima ancora oggi, in un tempo in cui "sono continuati i rapporti con i nuovi titolari dei poteri pubblici e politici e si vive una realtà di un'informazione non policentrica e non critica che determina la creazione di modelli sbagliati. In tutto questo, ha concluso il magistrato, Catania con la sua bellezza era ed ha continuato ad essere un luogo di colonizzazione territoriale e politico-istituzionale, in cui i catanesi hanno avuto sempre meno spazio, come prova il fatto che per circa trent’anni la città non ha avuto un sindaco che sulla carta di identità avesse scritto nato a Catania. Una colonizzazione anche economica che vede oggi la zona dei quartieri ricchi ampiamente abitata da chi viene da altri centri; mentre la grande maggioranza dei catanesi che hanno le radici parentali più profonde, è ridotta in povertà e confinata nell’isolamento dei quartieri ghetto, divenuti satelliti separati dai luoghi del benessere. Anche, e non solo per questo - ha concluso il magistrato - dovremmo sentirci molto più vicini a loro e batterci per il loro riscatto che coinciderebbe con il riscatto della città”.

Foto © Imagoeconomica

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