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di Karim El Sadi - Video
Il consigliere togato del Csm intervenuto insieme ad altri ospiti in un incontro on line di WikiMafia

"Non si tratta di essere giustizialista, espressione priva di significato. Si tratta di essere aderenti alle regole. Il carcere non viene meno per suggestioni o per false ragioni, né può venir meno nei confronti di un pericolo qualificato che la persona scarcerata appartenente a un’associazione mafiosa torni a segnare pericoli e danni alla società". E' intervenuto così Sebastiano Ardita, consigliere togato e presidente della prima commissione del Csm, durante la conferenza web organizzata da WikiMafia sull’attualissimo tema delle scarcerazioni dei boss mafiosi avvenute nei mesi scorsi a causa del rischio contagio da Coronavirus. A parlare del tema, già dibattuto in numerose sedi istituzionali e non, sono stati chiamati anche Nando dalla Chiesa, figlio del generale e professore universitario, Tina Montinaro, vedova di Antonio capo-scorta di Falcone deceduto nella strage di Capaci, e Stefania Pellegrini, prof.ssa ordinaria di sociologia del diritto all'Università di Bologna. Sebastiano Ardita ha analizzato la questione partendo dai primi giorni di marzo in cui in tutti gli istituti detentivi d'Italia sono scoppiate le rivolte. "C’è stato il periodo del Covid nel quale questa situazione ha raggiunto il suo apice perché probabilmente la massa della popolazione detenuta si è trovata un po’ smarrita di fronte alla mancanza di informazioni che in qualche modo tutti cercavano all’esterno. E si sono verificati dei fatti molto gravi cioè le rivolte, come punto di caduta di un sistema penitenziario profondamente in crisi". "La risposta alle rivolte - nelle quali si sono registrate 14 vittime tra i detenuti oltre a danni per milioni di euro alle strutture carcerarie - è molteplice". "Da un lato - ha spiegato Ardita - si è preferito agire con un ampliamento delle possibilità di misure di detenzione domiciliare, laddove queste misure erano state concesse per ragioni di pericolosità individuale o pericolo di fuga. E dall’altro è stata emanata una nota di impulso agli istituti penitenziari in cui si invitavano le carceri a comunicare a tutte le autorità giudiziare competenti i soggetti che soffrivano di determinate patologie che, a rischio contagio da Covid, avrebbero potuto mettere in pericolo di morte gli stessi detenuti".
Il dato di fondo, ha aggiunto, era che "il Covid andava monitorato e studiato all’interno delle carceri così come è stato fatto all’esterno. E andava individuato il dato su questo rischio, cioè che in carcere ci potesse essere un maggior rischio di contagio rispetto all’esterno. Questo dato non è mai stato dimostrato". Anzi, ha detto Ardita, "si è rivelato fallace perché all’interno del carcere il Covid si è diffuso molto poco". "Dunque ipotizzare una scarcerazione per Covid era ipotizzare una cosa non vera. Ma ad ogni modo - ha continuato - si è avuto un effetto di scarcerazioni di massa che ha riguardato anche tantissimi soggetti mafiosi. Non è mai successo un fatto simile nella storia recente del sistema penitenziario italiano. Perché il carcere ha come scopo quello di garantire sicurezza e fornire gli essenziali servizi sanitari. Se viene meno uno di questi presupposti le conseguenze sono le scarcerazioni".
Per il magistrato catanese, che per nove anni ha diretto brillantemente l'ufficio detenuti del Dap, di queste vicende non si saprebbe quasi nulla se non fosse per "pochi volenterosi": "A una trasmissione televisiva come “Non è l’Arena”, senza la quale probabilmente saremmo ancora al punto di partenza, alla commissione Antimafia". "Se tutti questi - ha affermato Ardita - si sono espressi vuol dire che c’è una ragione, non sono mitomani. Sono soggetti che forse hanno posto l’accento sul fatto che uno Stato di diritto è uno Stato nel quale occorre che ci sia attenzione prima di utilizzare strumenti deflativi per una causa che non c’è. Il nostro è un Paese nel quale bisogna stare attenti perché quando i capi di Cosa nostra tornano liberi, tornano a comandare, sono obbligati a riprendere i loro ruoli. Quello che occorre chiedersi è se abbiamo sotto controllo il sistema delle realtà dei pericoli, e dei pesi, o se ci facciamo trovare impreparati di fronte a emergenze del genere".

Il ruolo della memoria
Nel corso del suo intervento Sebastiano Ardita ha ribadito l'importanza della memoria nel contrasto alla criminalità organizzata e alla mentalità mafiosa. "Oggi si fa memoria in modo ricreativo partecipando alle manifestazioni senza capire quello che è accaduto, cosa significa". E in questo senso non bisogna dimenticare secondo il magistrato, quello che hanno rappresentato le carceri nel secolo scorso per le organizzazioni criminali. "Bisogna fare attenzione perché il carcere non torni ad essere un buco nero, un luogo nel quale nell’ozio e nel mancato controllo dello Stato si costituiscano nuove reti criminali. Io ricordo Carlo Alberto dalla Chiesa e quello che accadde prima del suo intervento. Fu l’unico a capire questo problema e a portarlo sotto agli occhi dell’esecutivo negli anni in cui la criminalità organizzata aveva trovato la sua concitazione di potere. Nelle carceri si creava il proselitismo. Carlo Alberto dalla Chiesa creò l’ufficio di sicurezza penitenziaria, il cui primo direttore fu proprio il generale dalla Chiesa. Vennero scoperte moltissime cose. Il successore di dalla Chiesa fu il generale Galvaligi che fu ucciso dal terrorismo proprio perché quell’ufficio era strategico. Quindi - ha spiegato - nel nostro Paese quello che manca è la memoria e l’attenzione perché tutto quello che può accadere può avere risposte e soluzioni nel passato. Occorre conoscere la storia e l’esperienza istituzionale del nostro Paese altrimenti non se ne viene a capo in queste situazioni. Le rivolte carcerarie sono state un pezzo di storia terribile del nostro Paese. Le rivolte venivano fatte per coprire omicidi in carcere, per regolare i conti. O perché si voleva in qualche modo concentrare un’azione contro lo Stato. Pertanto nel ricordo di una memoria che sia proficua c’è anche la risposta per come occorre comportarsi. Il tutto in un quadro del rispetto delle regole e la tutela dei diritti. E di metterli in equilibrio impedendo che sotto la retorica della difesa di alcuni diritti passi invece la violazione di altri". Pertanto, ha terminato il suo intervento Sebastiano Ardita, "bisogna stare con gli occhi aperti, parlare e discutere di questi fenomeni nel modo più laico e attento possibile perché non si ripetano. Occorre anche impedire che le questioni rilevanti del nostro Paese passino sotto silenzio, impedire che non vengano attenzionate. In una dimensione nella quale si smette di parlare, nella quale non si ha chiaro il catalogo dei valori costituzionali, la mafia ha solo da guadagnare. Quindi - ha concluso - per contrastarle serve, studio, competenza e soprattutto rispetto delle regole. Se si rispettano le regole non c’è spazio per le organizzazioni di tipo mafioso".

Scarcerazioni di boss
Durante l'appuntamento on line anche il professore di sociologia della criminalità organizzata dell’Università degli Studi di Milano, Nando dalla Chiesa, ha parlato delle scarcerazioni di massa dei boss mafiosi soffermandosi però sulla questione, sollevata da alcuni opinionisti, dei diritti umani che, ha affermato, "non si spiega come mai in Italia se ne parla solo quando si tratta di mafiosi".
"Non ci sono mai state centinaia di boss scarcerati contemporaneamente tutti con delle perizie mediche che a volte avevano qualcosa di comico. Ribadire che l’impunità si è costruita sulle perizie mediche e psichiatriche è un venir meno ai diritti umani?", si è chiesto il figlio del generale dalla Chiesa. "Io sono richiesto di aiutare delle donne detenute per aiutare i loro bambini esposti al Covid e non c’è nessuno che li difende perché questi diritti umani valgono soltanto per i boss mafiosi. A loro non pensa nessuno. Questo mi tormenta perché noi abbiamo investito tanto sull’educazione alla legalità". Nando dalla Chiesa ha confessato che anche il fatto di "vedere persone che hanno letto libri sulla mafia che vanno alle commemorazioni di Falcone e Borsellino ma senza sapere chi stanno ricordando, qual è stato il loro contributo e la loro eredità mi fa male". "Perché - ha spiegato - questo vuol dire che è stato inutile Borsellino e siamo stati unitili noi. E due generazioni di inutili sono insopportabili per un paese che voglia confrontarsi con la mafia. E' la prima volta che lo dico ma è un ragionamento che mi sta prendendo. La domanda a cui bisogna rispondere - ha ribadito - è perché in questo Paese si parla di diritti umani solo per i boss mafiosi?". Il problema di tutto ciò, secondo dalla Chiesa, "è come lo Stato si attrezza per combattere la mafia. Quali sono le culture con cui le persone che rappresentano lo Stato in differenti funzioni si confrontano per affrontare un tema che sta facendo tremare il Paese da un secolo e mezzo. Come mai nella cultura del diritto non è prevista una cultura antimafia. Eppure - ha concluso - la mafia è il massimo avversario del diritto ma il diritto non si occupa di mafia".

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