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I giudici: “Struttura gerarchica e riti di affiliazione, i machete usati per punire e reclutare”

La vicenda che ruota attorno al clan della cosiddetta mafia nigeriana, quello degli Arobaga-Vikings, non sembra essere ancora giunta al capolinea. Dopo il verdetto della Corte di Cassazione, che ha confermato in gran parte le condanne ma ha annullato la parte relativa alla transnazionalità del reato, la storia giudiziaria dei tredici imputati coinvolti dovrà passare nuovamente al vaglio della Corte d’Appello. A dicembre, dunque, si tornerà in aula per discutere quella che appare una questione tecnica, ma che potrebbe incidere in modo concreto sul calcolo delle pene. 

La Suprema Corte, pur confermando la natura mafiosa dell’associazione, ha ritenuto necessario un nuovo esame su quell’aggravante che collega le attività criminali dei Vikings a una dimensione oltreconfine. Un dettaglio tutt’altro che marginale, perché dalla sua conferma o esclusione dipenderà la misura definitiva delle condanne. 

Comunque, nonostante la decisione della Cassazione, l’impianto accusatorio non esce ridimensionato. Dalle indagini e dalle testimonianze è emersa un’organizzazione dotata di regole rigide e di una gerarchia interna ben precisa. La sentenza ha descritto infatti un sistema criminale capace di esercitare un’autentica forza intimidatrice sul territorio, in particolare nella zona di Roma, dove il clan si era imposto come gruppo dominante rispetto agli avversari degli Eiye, storici rivali dei Vikings. 

Secondo la ricostruzione dei giudici, la violenza rappresentava non solo uno strumento di controllo esterno, ma anche un mezzo di disciplina interna. I machete, ad esempio, venivano spesso utilizzati per punire i dissidenti, colpire i nemici e persino nei riti di iniziazione. Una brutalità ritualizzata, funzionale al mantenimento dell’ordine gerarchico, che sembra essere riuscita anche nell’intento di rafforzare la coesione del gruppo e di attrarre nuovi affiliati. 

Fonte: Il Resto del Carlino 

Foto © Imagoeconomica 

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