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“Non è incostituzionale l'abrogazione del reato di abuso d'ufficio”.
È quanto deciso dalla Corte costituzionale. Ammissibili le sole questioni sollevate in riferimento agli obblighi derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Merida).
Resiste quindi all’esame della Consulta la riforma voluta dal ministero della giustizia Carlo Nordio e da tutta la coalizione di governo.
La Corte costituzionale accoglie perché "ritenute ammissibili", le sole questioni sollevate in riferimento agli obblighi derivanti dalla cosiddetta Convenzione di Merida. Poche righe nella nota che annuncia la sentenza, 24 ore dopo l'udienza fiume di mercoledì.
Nel merito, come scrive la Corte sono “infondate tali questioni, ritenendo che dalla Convenzione non sia ricavabile né l’obbligo di prevedere il reato di abuso d’ufficio, né il divieto di abrogarlo ove già presente nell’ordinamento nazionale”.
L’articolo 19 della Convenzione di Merida, rubricato proprio “abuso d’ufficio”, prevede che “ciascuno Stato Parte esamina l’adozione delle misure necessarie per conferire il carattere di illecito penale, quando l’atto è stato commesso intenzionalmente, al fatto per un pubblico ufficiale di abusare delle proprie funzioni o della sua posizione, ossia di compiere o di astenersi dal compiere, nell’esercizio delle proprie funzioni, un atto in violazione delle leggi al fine di ottenere un indebito vantaggio per sè o per un’altra persona o entità”. Una formulazione che ricalca, più o meno, quella esistente nel nostro codice penale fino all’entrata in vigore della legge Nordio. Secondo i giudici che si sono rivolti alla Consulta, da questa norma e dal complesso del trattato è ricavabile un cosiddetto obbligo di stand still, cioè di “non tornare indietro", per uno Stato che già preveda il reato nel proprio ordinamento: l’abrogazione decisa dal governo, quindi, violerebbe un impegno assunto dall’Italia in sede internazionale.
Una tesi che però la Corte costituzionale ha respinto.

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