Lettera di 26 procuratori e della Dna di Giovanni Melillo al Csm: “Serve più autonomia”. Replica: “No ai pm fuori controllo”

Da un lato, i capi delle principali procure della Repubblica; dall’altro, il Consiglio Superiore della Magistratura; al centro, per molti, ci sarebbe la politica. Ma sono proprio i due massimi attori istituzionali a catalizzare gran parte delle tensioni, recentemente cristallizzate in una lettera firmata da ben 26 procuratori distrettuali che, insieme alla Direzione Nazionale Antimafia (Dna), hanno chiesto al Csm una modifica della cosiddetta “Circolare sulle procure”. Una missiva che, a quanto pare, non è stata accolta favorevolmente all’interno del Consiglio. Secondo i firmatari, le regole introdotte dalla circolare, che stabilisce criteri e modalità organizzative per gli uffici del pubblico ministero, stanno di fatto creando una vera e propria gabbia burocratica. L’effetto indesiderato - denunciano i magistrati - sarebbe il progressivo svuotamento dell’autonomia dei pm. Si sommano poi altri effetti negativi, come il peso delle comunicazioni obbligatorie, le prescrizioni formali e i vincoli organizzativi che, nel complesso, hanno reso la macchina della giustizia ancora più farraginosa.

Insomma, l’intento della circolare adottata dal Csm, che dovrebbe essere quello di definire regole uniformi per l’organizzazione degli uffici di procura, sembra aver mancato il bersaglio. E non di poco. Secondo i firmatari, le nuove norme, pensate per garantire trasparenza e coerenza nell’assegnazione del lavoro, non stanno funzionando. Anzi, pare che oggi sia diventato più complicato persino assegnare un pm a un gruppo di lavoro antimafia. Le nuove regole, infatti, impongono passaggi di comunicazione anche con i vertici giudicanti e con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Il risultato è una crescente rigidità e disorientamento tra gli addetti ai lavori. Una rigidità che, secondo i procuratori, non tiene conto nemmeno della natura stessa del lavoro inquirente, che richiede rapidità decisionale e operatività, soprattutto in ambiti delicati come la lotta alla criminalità organizzata, alla violenza di genere e alle truffe. La critica contenuta all’interno della missiva riguarda anche il modello gerarchico imposto dalla circolare: il procuratore aggiunto, oltre a coordinare i colleghi, dovrebbe farsi carico della metà del lavoro giudiziario di un sostituto. Un’impostazione che rischia di compromettere la funzionalità degli uffici inquirenti, già gravati da carichi di lavoro elevati e risorse limitate.

Tornando alla lettera inviata dai procuratori al Csm, il tono utilizzato - soprattutto nella conclusione - appare particolarmente tagliente, con un invito nemmeno troppo velato a “curarsi dei rami fruttiferi e potare quelli secchi”, concentrandosi invece su ciò che produce risultati concreti. La reazione del Csm - ha fatto sapere Repubblica - sarebbe stata altrettanto netta: la lettera è stata percepita come una pressione indebita esercitata da una sorta di “lobby” dei procuratori. Non a caso, il Consiglio ha immediatamente sospeso la riunione plenaria con gli stessi procuratori, prevista per la settimana successiva. Insomma, la tensione pare ormai alle stelle. Ma, al di là dei tecnicismi e delle regole organizzative, per i togati la vera posta in gioco è l’autonomia della funzione inquirente e la sua capacità di rispondere con efficacia alle esigenze di giustizia dei cittadini. Ed è qui che emerge il nodo centrale della questione. Da un lato, il Csm punta a garantire maggiore trasparenza, imparzialità ed efficienza nell’operato dei magistrati; dall’altro, ci sono gli stessi magistrati, che temono un accentramento delle decisioni in grado di trasformare gli uffici in strutture eccessivamente gerarchiche. Una configurazione molto più vulnerabile a pressioni esterne, comprese quelle politiche, soprattutto nei procedimenti più delicati: corruzione, criminalità organizzata e reati dei colletti bianchi.

La nuova circolare, introducendo criteri molto più rigidi e formalizzati per l’assegnazione di procedimenti e gruppi di lavoro, rischierebbe - secondo i magistrati - di rendere i sostituti meno autonomi e più subordinati al procuratore capo. Un modello che potrebbe favorire una catena di comando più facilmente controllabile dall’esterno. A sostegno di questa teoria, vi sono anche i continui attacchi della politica alla magistratura, in particolare al ruolo del pubblico ministero. In sostanza, ci si trova davanti a un bivio: da una parte, l’esigenza di regolamentare e controllare l’organizzazione della magistratura per garantirne trasparenza e responsabilità; dall’altra, la necessità - non meno urgente - di preservare l’autonomia dei magistrati inquirenti, affinché possano operare con rapidità ed efficacia, soprattutto nei contesti più critici. Al centro di questa diatriba, lo scontro tra procure e Csm appare come il sintomo di un equilibrio istituzionale ancora fragile, e tutt’altro che risolto.

Foto © Imagoeconomica

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